Formazione il fattore chiave. Serve un investimento vero

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C’è da augurarsi che il prossimo anno sia quello giusto per il definitivo avvio delle politiche attive del lavoro. Cosa possibile a condizione di ripensare seriamente il grande tema della formazione: tanto presente nei dibattiti e sui giornali quanto poco praticato, almeno in termini moderni e innovativi, in buona parte delle realtà aziendali.

 

Dopo un 2017 che ha visto gli investimenti crescere a doppia cifra, grazie agli incentivi previsti dal piano Industria 4.0, ora è il momento del credito d’imposta sulla formazione, che potrà consentire alle imprese di avere benefici fiscali per le attività di formazione dei propri lavoratori sulle tematiche che caratterizzano il nuovo modello produttivo. Il principio sul quale si fonda il credito d’imposta è che la formazione non è un costo ma è un investimento che potrà dare risultati nel lungo periodo solo se utilizzata al meglio ben oltre la dimensione dell’aula e delle lezioni che ancora oggi caratterizza l’offerta formativa riservata agli adulti.

 

Che il nostro Paese abbia bisogno di investire sulla formazione dei lavoratori lo mostra il panorama a tinte fosche dipinto dall’Ocse nel rapporto che analizza le competenze. Innanzitutto l’Italia risulta il terzo paese, dopo Cile e Turchia per numero di adulti con basse competenze in lettura, scrittura e calcolo, circa il 40%. Ma anche sulle competenze digitali siamo tra i paesi con i livelli più bassi. E questi sono elementi che spesso rendono difficile avviare processi di apprendimento, soprattutto legati a nuove tecnologie, in età adulta. Lasciando però questi livelli sullo sfondo è interessante notare come l’Italia risulti il Paese Ocse con il più basso livello di investimenti in formazione nelle imprese, sia nel settore dei servizi che in quello manifatturiero. E si tratta di un livello di investimenti che caratterizza tutte le imprese, senza particolari differenze per struttura dimensionale. Questo porta ad avere dei livelli di formazione media e specialistica inferiore rispetto agli altri Paesi.

 

Secondo l’ultimo Rapporto sulla formazione continua in Italia sono 2,5 milioni gli adulti tra i 25 e i 64 anni ad aver partecipato a corsi di formazione, pari al 7,3%. La media europea è del 10,7% e l’obiettivo (che pare oggi inarrivabile) che Europa 2020 ha dato all’Italia, da raggiungere entro tre anni è del 15%. Per non parlare del confronto impietoso con i paesi nordici (Danimarca, Svezia, Finlandia) che presentano percentuali superiori al 25% già oggi.

 

Sono molte le conseguenze di questo scenario. Prima fra tutte il fatto che se in tutti i paesi del G7 i lavoratori occupati in attività non routinarie sono maggiori, spesso anche il doppio, di coloro occupati in attività altamente ripetitive, in Italia avviene l’opposto. E questa è una conseguenza particolarmente grave per almeno due ragioni. Da un lato le imprese sconteranno livelli di produttività più bassi derivanti da queste attività ripetitive e standardizzate (sono di pochi giorni fa i dati che mostrano come nel 2016 la produttività del lavoro abbia visto un calo dell’1%), dall’altro i lavoratori italiani sono quelli più a rischio di sostituzione da parte di robot e sistemi automatizzati che possono svolgere queste attività a costi inferiori e con percentuali di errore e inefficienza più basse.

 

Un ultimo elemento può aiutare a chiudere il cerchio di questo scenario: se le imprese hanno lavoratori poco formati che sanno svolgere prevalentemente attività ripetitive ed esecutive, allora saranno più in difficoltà a fare investimenti in tecnologia, poiché mancano quelle figure professionali in grado di governare strumenti complessi. Tutto questo non facendo riferimento ai dati sulla formazione tecnica superiore, o sul rapporto tra scuola e lavoro, che in Italia è ancora particolarmente complesso. Basti pensare al numero di studenti all’interno degli Its, circa 8000 rispetto agli oltre 700mila dei corrispettivi tedeschi.

 

Proprio in questo quadro si inserisce il credito d’imposta opportunamente proposto dal Ministro Calenda, a completamento del suo piano nazionale per l’industria 4.0, e ora previsto dalla Legge di bilancio per il 2018. L’obiettivo è quello di fornire alle imprese uno strumento fiscale per adeguare i livelli di competenze dei lavoratori alle tecnologie nelle quali si è investito, così da completare i due livelli necessari per avviare anche in Italia la quarta rivoluzione industriale: il capitale fisico e il capitale umano. Ma non si tratta di una operazione semplice, ed è importante evidenziare alcuni aspetti di criticità che occorre considerare parlando di formazione.

Si è già avuto modo di vedere con il recente dibattito sull’alternanza scuola-lavoro come non basti collegare formazione e lavoro per ottenere risultati soddisfacenti. Quando l’esperienza di lavoro non è stata proposta e costruita sulla base dei profili dei ragazzi questa è stata fallimentare. E allo stesso modo il rischio si ripropone per quanto riguarda la formazione in azienda. Non bastano infatti corsi di formazione generalizzati, occorre costruire percorsi personalizzati che partano dalle competenze già presenti nei lavoratori e le riqualifichino. Per far questo le imprese dovranno attrezzarsi attraverso serie mappature delle competenze dei loro lavoratori e analisi dei fabbisogni necessari per giungere laddove vogliono arrivare, sulla base delle esigenze necessarie per l’utilizzo della tecnologia sulla quale si vuole investire. Un percorso lungo, una sfida culturale di imprese e lavoratori. Le prime dovranno iniziare a capire che il mercato del lavoro non può offrire lavoratori dotati di tutte le competenze di cui hanno bisogno, i secondi dovranno iniziare a capire che la formazione non finisce mai, due rivoluzioni che possono solo in parte essere sostenute da incentivi economici.

 

Ma esiste anche un tema più complesso che rende problematica l’idea della formazione come panacea di tutti i mali: siamo sicuri di riuscire a riqualificare i lavoratori più maturi portandoli verso le competenze digitali necessarie oggi? Si tratta di un nodo sociale fondamentale se è vero come è vero che ogni mese l’Istat comunica dati in crescita per quanto riguarda la disoccupazione degli over 50, a prova del fatto che oggi è particolarmente complesso trovare un lavoro dopo aver passato molti anni specializzandosi in mansioni che oggi non servono più. Il problema è urgente e riguarda la transizione verso un nuovo modello di produzione che non può permettersi di lasciare indietro le persone. Per questo motivo l’investimento in formazione dovrà cogliere la sfida di valorizzare il singolo lavoratore, farne emergere i talenti, riconvertirli, mettere a tema la sua esperienza attraverso forme di scambio con i più giovani, logiche di maestro e allievo, modelli organizzativi che valorizzino la condivisione di competenze.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi 
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT

 

*pubblicato anche su Avvenire, 22 novembre 2017

 

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