Genere e identità professionale: l’insostenibile leggerezza delle offerte di lavoro di “Garanzia Giovani”

Recentemente sul portale di “Garanzia Giovani” del Ministero del Lavoro sono apparsi alcuni annunci relativi alla ricerca di personale per lo svolgimento di mansioni al pubblico, “declinati” al femminile. Si legge infatti: “Cercasi collaboratrice per ufficio (…)”, “addetta al settore marketing/all’amministrazione”, fino ad arrivare al più che esplicito “ricerco una ragazza, anche alla prima esperienza (…)”. Dietro l’apparente normalità di queste inserzioni, la portata del messaggio veicolato è molto delicata e spesso non compresa, in primo luogo dalle stesse istituzioni. Fondare la procedura selettiva di accesso al lavoro sul sesso della candidata significa far discendere l’assunzione da uno dei motivi all’origine del divieto di discriminazione; non viene in essere, quindi, una mera questione etica, ma un fatto normativamente disciplinato e sanzionato. Alla luce di ciò, il Ministero non sembra adoperarsi per filtrare il contenuto delle pubblicazioni, prima di consentirne la diffusione, come ADAPT aveva già da tempo sottolineato.

 

Si denota come all’interno delle offerte di lavoro non venga specificata la necessità di un’esperienza pregressa, ma neppure quella di alternative competenze: il genere di appartenenza compare quale unico requisito. Ciò non è sintomatico di un’apertura di mercato, come potrebbe apparire ad una prima, superficiale lettura, ma piuttosto di una più vasta assenza di criteri di selezione che prescindano dal sesso biologico. In questo modo il lavoro perde la propria funzione sociale di valorizzazione e conferimento di dignità, in quanto si procede ad una sottile ma potente spersonalizzazione della figura professionale. Infatti il significato di “identità”, umana e lavorativa, si traduce nel riconoscimento esterno del proprio potenziale, quale complesso delle risorse e capacità individuali. Il genere rappresenta in questo senso solo una componente secondaria, tenuto conto peraltro che esso incarna una nozione fluida e non intrinsecamente binaria, così come socialmente coniata. Basti pensare alle minoranze transgender e intersex, le quali costituiscono una fetta di forza lavoro che, stante una simile categorizzazione duale, viene automaticamente esclusa dal processo produttivo.

 

Alla violazione consegue, inoltre, il perpetrarsi del fenomeno di segregazione orizzontale all’interno del mercato del lavoro. La ricerca di una figura femminile, infatti, è tipica di determinati settori, dal contatto col pubblico ai ruoli assistenziali. Questa tassonomizzazione conduce all’indebolimento della flessibilità occupazionale e, non secondariamente, ad esiti discriminatori con effetto boomerang che vedono l’esclusione degli uomini da mansioni ritenute prerogativa femminile, anche laddove il genere non costituisca un requisito essenziale della prestazione.

 

L’ordinamento italiano sanziona i comportamenti che violano il principio di parità di trattamento in materia di accesso al lavoro. L’articolo 27 del d.lgs. n. 198/2006 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”) punisce l’introduzione del requisito del sesso di appartenenza nell’ambito dei meccanismi di preselezione, posti in essere a mezzo stampa o di qualsiasi altra forma pubblicitaria. Ciò avviene anche qualora il processo selettivo sia stato operato in modo indiretto tramite soggetti terzi, in assenza di una tempestiva attivazione datoriale volta a rimuovere la violazione.

A seguito della depenalizzazione operata, il rimedio irrogato ha carattere amministrativo; la sanzione, così come disciplinata ex d.lgs. n. 8/2016 art. 1, co.1 e 5 lett. a), risulta attualmente compresa tra 5.000 e 10.000 euro. Quest’ultima è applicata anche qualora l’illecito si verifichi nell’ambito di accesso a “iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento” (co. 3 art. 27, cit. supra). Come avviene per i requisiti dell’attività lavorativa, che devono essere essenziali allo svolgimento della prestazione, anche in questo caso sorge l’esigenza di giustificare i contenuti formativi solo in relazione al settore di attività e alla natura del lavoro svolto.

 

Per quanto l’inasprimento sanzionatorio rappresenti senza dubbio un disincentivo nei confronti della commissione dell’illecito, rimane il fatto che una forma di tutela preventiva aspira ad un maggior grado di effettività. La ratio sanzionatoria in questione, infatti, non appare efficace per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, essa interviene a posteriori rispetto all’esplicarsi degli effetti, per cui la rimozione degli stessi, operando ex post, appare più difficoltosa.

 

Secondo di poi, i rimedi in questione sono, tutt’oggi, sconosciuti ai più, da una parte a causa della mancanza di sensibilità e attenzione sul tema, dall’altra perché la legislazione nazionale, per quanto ricca e stratificata, risulta frammentaria e disorganica. La risoluzione del problema richiede infatti una riorganizzazione strutturale dei rimedi processuali volti all’attuazione del diritto sostanziale. L’introduzione di un corpus normativo efficace in punto di tutela andrebbe ad incidere anche sulla rilevanza attribuita alla problematica dalla sensibilità sociale e dalle istituzioni, influenzando in modo pregnante l’azione politica degli attori coinvolti.

 

Federica De Luca

ADAPT Junior Fellow

@0FedericaDeLuca

 

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