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In anni recenti, grazie ad alcuni eccezionali ritrovamenti di fossili, si è scoperto che i dinosauri avevano le piume e che gli uccelli, quelli di oggi, sono i loro ultimi veri discendenti. Quelle “terribili lucertole” che cinema e documentari sembravano averci fatto conoscere così da vicino erano in realtà polli, non coccodrilli. Sono state spese parole molto brillanti su questo argomento: il cambio di raffigurazione pittorica – dinosauri vivi, naturalmente, non possono essere fotografati – rivoluziona un campo scientifico, una forma d’arte, e un immaginario collettivo dati per acquisiti, scontati, e consolidati.
Cosa metterà le piume nel prossimo futuro? Quale reperto ci farà ricredere su un’iconografia che davamo per scontata? Credo toccherà al lavoro e il reperto, da cui stiamo via via togliendo la sabbia, sarà il lavoro su piattaforma, fenomeno che sta portando in superficie il mondo sommerso (in tutti i sensi) dei lavoretti, della gig economy.
Tra approssimazioni e generalizzazioni, alcuni testi di legge stanno provando, anche in Italia, a dare una raffigurazione al lavoro su piattaforma. Il quadro, però, non è soddisfacente. La «Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano» firmata a Bologna e la «Proposta legge regionale “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali”» del Lazio sono i due primi testi normativi sulla materia ed entrambi gli atti si ostinano a non vedere le piume che affiorano dal fossile.
Sia la «Carta di Bologna» che la «Proposta Lazio» qualificano i gig worker come «lavoratori digitali» cioè come lavoratori che offrono la propria disponibilità ad una piattaforma informatica o che, comunque, se ne servono per l’esercizio della propria attività. Questa definizione è corretta solo in parte. È digitale il lavoro di chi scrive righe di codice in crowdsourcing e, in parte, lo può essere la compilazione di database su Amazon MTurk. Non lo è il lavoro dei driver di Uber, o degli assemblatori di mobili IKEA di TaskRabbit, o dei gig worker più mediatici del momento, i rider. Questa svista, che accomuna le premesse dei due testi, non è l’unica.
I primi giudici a deliberare sull’inquadramento dei rider hanno qualificato il loro lavoro come autonomo, per via della possibilità di ritirare, senza conseguenze sanzionatorie, la disponibilità data a svolgere un determinato incarico. Questa, in sintesi, la differenza con il lavoro subordinato. La «Carta di Bologna» e la «Proposta Lazio» formalmente si impegnano a tutelare il lavoro su piattaforma a prescindere dall’inquadramento. Di fatto, però, descrivono il lavoro dei gig worker come lavoro dipendente. Il dettaglio rivelatore è l’insistenza su un compenso orario minimo. Attualmente, la maggior parte del lavoro su piattaforma è retribuita in base al risultato conseguito dal prestatore, non secondo il tempo impiegato. Questo è indice di autonomia. Un compenso orario, invece, implica un tempo prestabilito durante il quale il datore di lavoro può accertarsi che il lavoro venga eseguito dove e come prestabilito e sanzionare l’esecuzione mancata o inesatta. Tempi, luoghi, controllo, e sanzioni sono indici di subordinazione e riflettono con precisione il tipo di lavoro più diffuso nel secolo scorso, il lavoro alle dipendenze, ed il luogo di lavoro di riferimento, la grande impresa di stampo fordista.
I testi di Bologna e del Lazio non vanno oltre. Rappresentano ciò che i legislatori hanno in mente, non ciò che vedono. Le piattaforme accettano il rischio di un lavoro atomizzato, decentrato, e flessibile, al contrario delle grandi imprese accentratrici, rigide, e organiche del Novecento industriale, che fondavano la propria stabilità su vincoli contrattuali, controllo, e dirigismo. Le tutele dei platform worker sono disegnate di conseguenza. La Carta di Bologna, ad esempio, prevede un «Diritto al Conflitto» accanto ai tradizionali diritti alla salute, alla sicurezza, e alla non discriminazione.
Ma se le tutele nella gig economy arrivassero non dal conflitto, ma dalla cooperazione? Da più parti in Europa stanno facendo strada esperienze di piattaforme possedute, gestite, e controllate dai platform worker stessi. Questi esperimenti sono la risposta alle promesse non mantenute della sharing economy, sono la reazione ai tentativi delle piattaforme di accentrare e comportarsi come un datore di lavoro fordista. Il cooperativismo di piattaforma, platform cooperativism, è stato teorizzato, studiato, e promosso da Trebor Scholz, cooperatore, attivista, e professore associato alla New School di New York. L’Alleanza delle Cooperative Italiane ha curato la traduzione del suo manifesto del platform cooperativism, che è disponibile gratuitamente a questo link.
Né la Carta di Bologna né la Proposta Lazio prendono in considerazione questa ipotesi. La diffusione di piattaforme di proprietà dei rider o dei tasker non fa parte del disegno. Eppure, le opportunità per i gig worker potrebbero essere molte: anzitutto, decidere cosa deve/non deve, può/non può, fare l’algoritmo che governa la piattaforma. La cooperazione di lavoro si fonda sulla gestione democratica dell’impresa da parte dei soci-lavoratori. Gestione in prima persona significa andare oltre l’attività del momento, come può essere la consegna di un pasto, per pensare in ottica imprenditoriale, in lungo periodo, e quindi dare stabilità anche ad un’attività flessibile e – nel contesto non cooperativo – estemporanea. La cooperazione, quindi, favorisce l’emersione di competenze gestionali. Ma può anche far emergere nuove forme di tutela.
Le cooperative di lavoro hanno un doppio rapporto con i propri soci: il primo è un rapporto sociale, il secondo, appunto, di lavoro. Non è detto che sia lavoro subordinato. Esistono cooperative di artigiani, di liberi professionisti, e di autonomi che rendono la propria prestazione in forma collaborativa, coordinata, e continuativa (co.co.co.), ma senza vincoli di subordinazione, nella stessa modalità, cioè, con cui Foodora ha scelto di gestire i rider. Scopo di Foodora, ottenere le tutele previdenziali e assicurative offerte dalla Gestione Separata INPS e dall’INAIL, senza rinunciare all’autonomia dei propri ciclo-fattorini. I collaboratori co.co.co. sono persino ammessi alla tassazione agevolata sul welfare aziendale. Non hanno ferie, permessi, TFR, e tredicesima, ma cosa vieta ad una cooperativa di introdurre elementi simili nel regolamento che, per legge, è obbligata ad adottare? Nulla, anzi, alle cooperative di lavoro è permesso erogare, in sede di approvazione di bilancio, una distribuzione di utili sotto forma di “ristorno”, in base alla quantità e alla qualità di lavoro prestato (o, meglio, conferito) in cooperativa: praticamente un premio di risultato agevolato concordato tra i soci.
Oppure possono far ricorso al lavoro intermittente, la forma di lavoro subordinato più flessibile. Il nuovo CCNL «per i dipendenti da Aziende dei settori Pubblici esercizi, Ristorazione collettiva e commerciale e Turismo» inquadra al sesto livello la figura dell’«addetto alle consegne» e al settimo il «conducente di motocicli», praticamente l’attività dei rider che portano pasti a domicilio. Il Regio Decreto n. 2657 del 1923 (a proposito di dinosauri…) consente di svolgere questa attività anche “a chiamata”. E, forse forzando un po’ la norma, si può dire anche che, riguardando pubblici esercizi, non si applica il limite di quattrocento giornate di lavoro “a chiamata” nei tre anni solari.
Le cooperative di piattaforma si stanno diffondendo. Fungono da umbrella company – il prof. Ichino, ad esempio, auspica per la gig economy «strumenti mutualistici» che assicurino «continuità di reddito» – utili a stabilizzare e regolarizzare l’attività di freelance. In Francia, la cooperativa CoopCycle mette a disposizione, solo per altre cooperative, un software gestionale open source per gestire ordini e consegne in bicicletta. L’idea è piaciuta a un gruppo di rider di Bruxelles, che ha fondato Molenbike, così come ai barcellonesi di Mensakas. Il lavoro dei fattorini non diventa così più «digitale», ma è grazie alle tecnologie digitali che ottiene più tutele. L’evoluzione tecnologica, blockchain in testa, renderà più performanti ed accessibili, quindi più diffusi, i mezzi che ora stanno sperimentando i primi pionieri. Regole e opportunità non mancano. È davvero necessaria una nuova legge sul lavoro di piattaforma?
Gli illustratori di dinosauri hanno dovuto adattarsi ad immaginare piume dove avevano sempre disegnato squame. Non hanno dovuto cambiare pennelli – o aggiornare i software di disegno – ma sono stati costretti a uno sforzo di creatività per fare del proprio lavoro una fonte di conoscenza, non semplici raffigurazioni dell’abituale ma ricerca di verità. Abbandonare i Flinstones e Jurassic Park non deve essere stato facile. Riuscirà il legislatore a dipingere un mercato del lavoro per la gig economy, per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse, continuando a immaginare fabbriche del secolo scorso?
Simone Caroli
HR Confcooperative Modena
ADAPT Senior Fellow