Il prossimo 1° maggio festeggeremo, lontano dai riflettori, il secondo anno di vita del programma “Garanzia Giovani”. Una ricorrenza importante perché fatta coincidere, per scelta azzardata del Governo, con la festa del lavoro. Ma da festeggiare c’è davvero ben poco e certamente non leggeremo, per l’occasione, alcun tweet di Matteo Renzi che si è sempre tenuto lontano da quello che, ben oltre la volontà di potenza della “svolta buona” e dello storytelling governativo, era un flop annunciato da rimettere il prima possibile nel cassetto. Sembra del resto che il fallimento di un piano da 1,5 miliardi di euro sia da attribuire a colpe del passato di un Paese che mai ha messo in pratica le politiche attive del lavoro tanto sbandierate dal Jobs Act. Eppure non possiamo appellarci al passato se, con una disoccupazione giovanile al40 %, ancora in questi giorni il portale pubblico di “Garanzia Giovani” pubblica annunci di improbabili stage pagati dallo Stato per lavoretti sottoqualificati che di formativo hanno davvero poco.
Gli errori tecnici di impostazione e attuazione di “Garanzia Giovani” in Italia sono tanti e non è certo questa la sede per analizzarli. Un rapporto di ADAPT, il centro studi fondato da Marco Biagi, indirizzato al vice presidente della Commissione europea Jyrki Katainen li aveva elencati in dettaglio e in tempo utile per correggerli. Resta in ogni caso difficile riporre ora in un cassetto, assieme ai sogni di gloria di una rinnovata festa del lavoro aperta a quanti ne sono sempre stati esclusi, anche quella massa di giovani italiani che ha creduto alla parola del Governo. Un vero e proprio esercito di giovani di belle speranze che hanno preso sul serio la promessa di una “garanzia” iscrivendosi al programma e mettendosi pazientemente in coda a una porta che, però, per la maggioranza di loro, è rimasta chiusa alimentando rabbia e delusione. Perché i numeri parlano chiaro ed è davvero difficile trovarne una interpretazione positiva.
Il dato più sorprendente è quello dell’entusiasmo con cui i giovani tra i 15 e i 29 anni hanno aderito all’iniziativa. È infatti stata raggiunta la cifra, più significativa che simbolica, di un milione di iscritti al piano. Un numero senza precedenti se pensiamo allo storico dei piani di politiche del lavoro nel nostro Paese. E un numero dal quale emerge anche un atteggiamento nuovo rispetto ai servizi per l’impiego, sicuramente dettato dalla drammaticità dei tassi di occupazione giovanile e dal venire meno, nella stagione della crisi, di quella rete familiare e di amicizie che da sempre è stata la base per trovare un impiego nel bel paese. Il numero inizia a ridursi se si prendono in esame gli iscritti al netto delle cancellazioni. Questi diventano 897mila: cifra sempre imponente ma che accende dubbi riguardo alla comunicazione del piano e del target, che ha portato più di 100mila iscritti senza i requisiti necessari.
Tra questi 897mila ben 659mila sono stati “presi in carico”, ossia hanno sostenuto un colloquio con il centro per l’impiego di riferimento e hanno sottoscritto un patto di servizio. Se quindi l’iscrizione al piano era una prima speranza per un giovane disoccupato o inoccupato, la firma del patto di servizio non ha fatto altro che aumentarne le aspettative, facendogli quasi pensare che davvero una “garanzia” per lui poteva esserci. Con rammarico dobbiamo invece constatare che non è stato così. Se infatti andiamo a analizzare il vero numero importante, quello sulle proposte concrete fatte ai giovani iscritti, il quadro si incupisce. Secondo gli ultimi dati del Ministero del lavoro queste ammontano a circa 300mila: circa un terzo degli iscritti al netto delle cancellazioni. Una cifra che di per sé certifica il fallimento del piano e getta una ombra scura sulle illusioni di quei 600mila ragazzi che restano al momento a mani vuote.
La situazione non migliora se si analizzano le proposte fatte ai 300mila fortunati. In questo caso i report più aggiornati sono di un mese fa, data dalla quale l’Isfol ha interrotto la pubblicazione dei monitoraggi settimanali. Emerge che la maggioranza (circa il 60%) delle proposte concrete consiste in tirocini di dubbia valenza formativa, mentre i contratti di lavoro veri e propri sono poco più del 10%, con un boom a dicembre 2015, ultimo mese in cui una impresa poteva usufruire del combinato disposto di “Garanzia Giovani” e decontribuzione per l’assunzione di un giovane con un contratto a tutele crescenti.
Non che il piano europeo avesse l’obiettivo diretto di trovare un lavoro agli under 29, ma è difficile immaginare che la qualità dei tirocini offerti possa incidere seriamente sulla loro occupabilità futura. Basta sfogliare le offerte presenti sul portale del Ministero del lavoro: si passa dal maggiordomo al facchino, dal “manovale con esperienza” al pizzaiolo, dalla segretaria all’addetto al caricamento dati. Tutti lavori nobili ovviamente, ma per i quali non si vede l’esigenza di un tirocinio al posto di un vero e proprio contratto.
Tutte queste considerazioni, che portano ad un giudizio complessivamente negativo, non rispecchiano le realtà di tutte le regioni italiane a dimostrazione che lo spazio per fare diversamente e meglio non mancava. Ad esempio la Lombardia rappresenta un caso positivo, in cui quasi il 50% dei giovani iscritti sono stati avviati al mercato del lavoro, con una cifra di assunzioni vere e proprie superiore a quella dei tirocini. Al contrario numerose regioni del Sud, pur avendo un grandissimo numero di iscritti, oggi non possono vantare altrettante proposte concrete effettuate. Il tutto, poi, è reso di difficile interpretazione dalla assenza di trasparenza e di report di monitoraggio dettagliati che sono diffusi in modo costante oggi solo da 7 regioni.
Uno scenario preoccupante dunque. E che non merita di uscire dai riflettori per almeno due ragioni. La prima è il rispetto per quel milione di giovani iscritto al piano, che non possiamo abbandonare alla rassegnazione o consegnare alle fin troppo affollate schiere del populismo nostrano, forti dell’ennesimo fallimento dello Stato che si è palesato ai loro occhi. La seconda è che “Garanzia Giovani” è un banco di prova di quelle che saranno le nuove politiche attive e di ricollocazione promesse dal Jobs Act ma sino ad oggi rimaste sulla carta. I ritardi e i rallentamenti del processo di riforma, più volte sottolineati da vari fronti nelle ultime settimane, rischiano infatti di condannarci a una perenna mancanza di “garanzia”, non solo per gli under 29, ma per tutti i lavoratori italiani.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT