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Bollettino ADAPT 24 febbraio 2020, n. 8
Durante l’ultima indagine OCSE PISA (2018) sono stati somministrati, oltre ai test per valutare le competenze funzionali in italiano, matematica e scienze dei quindicenni (i cui risultati per l’Italia sono stati già discussi su qui), anche dei questionari in cui si chiedeva ai giovani intervistati quale fosse la professione che avrebbero desiderato svolgere all’età di trent’anni. Gli esiti del sondaggio sono stati raccolti in un report presentato nel gennaio scorso durante il World Economic Forum.
Da questo studio emerge un dato abbastanza sorprendente: circa il 50% degli intervistati (giovani residenti in 41 Paesi del mondo) ha espresso una preferenza che ricade in una lista di dieci professioni soltanto, a conferma di una tendenza che ha visto nelle ultime due edizioni dell’indagine promossa dall’OCSE la progressiva omologazione delle aspirazioni professionali dei giovani. Si tratta, per giunta, di mestieri piuttosto “tradizionali” (esistevano già nel secolo scorso): il medico, l’avvocato, l’ingegnere, l’insegnate, l’agente di polizia ecc.
Tutto ciò fa pensare che i giovani di oggi non conoscano le professioni emergenti – ad esempio quelle legate alle ICT – e che non captino i segnali mandati da un mondo del lavoro in forte e costante trasformazione – o, forse, che nessuno tra gli adulti li aiuti ad interpretare quei segnali.
Sicuramente aspirazioni professionali ingenue oppure incongrue rispetto alle proprie attitudini potrebbero portare questi giovani a scegliere percorsi formativi sbagliati, con conseguenze anche disastrose: difficoltà scolastiche, abbondo precoce degli studi, oppure difficoltà a spendere sul mercato del lavoro il titolo faticosamente ottenuto, perché inflazionato o non collegato a profili professionali richiesti (mismatch), da qui la disoccupazione giovanile.
Si tratta di fenomeni arcinoti, di cui nel nostro Paese, che ne soffre pesantemente, si parla ormai da vent’anni, ma che non per questo risultano meno gravi. Giusto per rendercene conto, vale la pena citare alcuni dati. In Italia nell’a.s. 2016/2017 su un totale di circa 2 milioni e mezzo di studenti iscritti ai percorsi di istruzione secondaria di secondo grado 100.000 giovani hanno abbandonato la scuola; il tasso di abbandono era mediamente più alto nella classe prima (6,2%), chiaro sintomo di decisioni non sempre appropriate nella scelta della scuola superiore (Dati MIUR). Per non parlare della disoccupazione giovanile attorno al 30% e del primato che l’Italia detiene in Europa per il tasso di Neet: 28% di coloro che hanno un’età compresa fra i 20 e 34 anni, più di due milioni di individui (Dati Eurostat riferiti al 2018).
Questi fenomeni, dietro ai quali ci celano anzitutto dei fallimenti personali, spesso dolorosi, rappresentano anche un danno sociale enorme: con la crisi demografica che sta investendo l’Italia (nel 2019 100 morti ogni 67 nuovi nati; al netto del saldo migratorio: 116.000 abitanti in meno), il nostro Paese non può permettersi questo “spreco” di giovani.
Cosa fare dunque per rimediare ai problemi dell’abbandono scolastico e del mismatch? Per prima cosa bisognerebbe riformare l’intero sistema scolastico, rilanciando il metodo dell’alternanza fra teoria e pratica, l’intreccio non estrinseco fra studio e lavoro, creando ecosistemi territoriali per la formazione e l’innovazione in cui collaborino centri di formazione, scuole, aziende, istituti dell’alta formazione e della ricerca, enti locali, enti del terzo settore ecc.
Ma non è questa la sede per affrontare un argomento così vasto e complesso. Per ora basti raccogliere la raccomandazione fatta dagli analisti dell’OCSE che hanno presentato i dati relativi alle aspirazioni professionali dei giovani coinvolti nell’indagine PISA: occorre investire sull’orientamento scolastico fin dalla scuola secondaria di primo grado.
Purtroppo, anche su questo fronte l’Italia parebbe deficitaria, se è vero che l’anno prossimo il 56,3% dei ragazzi e delle ragazze che oggi frequentano la terza media si iscriverà ad un liceo – solo il 30,8% ad un istituto tecnico, il 12,9% ad un istituto professionale, ancor meno ai corsi di Istruzione e formazione professionale regionali (Dati MIUR).
Sia chiaro: scegliere il liceo non è di per sé una scelta errata, ma è chiaro che in questa sproporzione si nasconde un’anomalia. I nostri quattordicenni non sanno in quale settore professionale vorrebbero lavorare. Probabilmente, ai loro genitori l’iscrizione ad una scuola generalista pare la scelta più prudente, perché ritengono che possa «tener aperte» tutte le opzioni possibili. Ma i dati sull’abbandono scolastico suggeriscono il contrario. Almeno per quei giovani che – pur dotati di numerosi altri talenti – non sono particolarmente inclini allo studio teorico e che potrebbero incontrare grosse difficoltà all’interno di un percorso formativo basato sulla trasmissione libresca del sapere (come sono ancora, purtroppo, molti nostri licei e, per imitazione pur con una riduzione delle materie umanistiche e scientifco-teoriche, persino gli istituti tecnici e professionali di Stato).
Del resto, fa riflettere il fatto che un Paese confinante con il nostro, la Svizzera, dove la disoccupazione giovanile si attesta ai livelli bassissimi – nel 2018: 6,4% delle persone fra 15 e 24 anni – e dove le arti e le scienze non sono certo meno progredite che in Italia, circa il 60% degli adolescenti decida al termine della scuola secondaria di primo grado di intraprendere un percorso di formazione professionale in apprendistato (sistema duale).
È pur vero che nella Confederazione Elvetica l’offerta di formazione professionale è ricchissima (circa 250 percorsi solo a livello secondario) e, soprattutto, che esistono delle passerelle per ottenere già durante l’apprendistato, oltre ad una qualifica professionale riconosciuta su tutto il territorio nazionale, un diploma di maturità professionale valido per accedere alle Scuole universitarie professionali (SUP) oppure un diploma di maturità liceale valido per iscriversi alle Università. Così, un apprendista falegname potrebbe intraprendere un percorso che lo porta a diventare arredatore d’interni con un Bachelor in architettura, ad esempio. Senza contare che dopo l’apprendistato è possibile proseguire la propria formazione frequentando le c.d. Scuole specializzate superiori (SSS), istituti di istruzione terziaria non accademica generalmente di durata biennale, oppure uno dei numerosissimi corsi di formazione continua (ce ne sono circa 400) che rilasciano certificazioni riconosciute a livello federale. Insomma, la scelta dell’apprendistato non è una gabbia per il giovane, perché consente percorsi di crescita assai stimolanti fino a profili professionali elevati.
Ma forse è proprio questo il punto. Solo un’offerta formativa così ricca e specialistica – unita ad una mentalità diffusa che guarda senza pregiudizi alla formazione professionale apprezzandone il valore educativo, prima ancora degli esiti occupazionali – può aiutare i giovani a farsi un’idea più veritiera del mondo del lavoro e quindi a nutrire ambizioni professionali e progetti di vita più realistici.
Allora, se si vuole investire sull’orientamento, bisogna anche rafforzare i segmenti professionalizzanti del nostro sistema educativo (istituti tecnici e lefp in primis), soprattutto a livello terziario, costruendo delle passerelle che consentano la permeabilità tra le filiere formative.
Non serve innalzare l’obbligo scolastico a diciotto anni, come recentemente suggerito da alcuni partiti di governo, perché il problema non è trattenere i giovani più tempo a scuola, ma offrire percorsi formativi adeguati alle loro propensioni, che le valorizzino facendone sbocciare talenti, così da aiutarli a crescere come persone e a costruirsi una professionalità che potranno poi spendere sul mercato del lavoro.
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia