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Bollettino ADAPT 2 novembre 2020, n. 40
Periodicamente si torna a parlare di staffetta generazionale. Si tratta della teoria secondo la quale il pensionamento dei lavoratori più maturi porterebbe quasi in automatico all’assunzione di giovani per rimpiazzarli e, sostenendo questo, si avvalla l’idea che in fondo i lavoratori vicino alla pensione siano un tappo per le nuove generazioni. In questo senso la riforma Fornero non solo avrebbe “condannato al lavoro” (espressione infelice) centinaia di migliaia di over 60 ma soprattutto tarpato le ali ad altrettanti giovani. Da ultimo questa teoria è stata utilizzata spesso e volentieri per promuovere Quota 100 promettendo, non si è mai saputo su quali basi, ricambi perfino di un pensionato con tre giovani. I dati del mercato del lavoro degli ultimi due anni smentiscono queste previsioni ma è ancora presto per calcolare nel dettaglio cosa sia accaduto e quali siano le correlazioni tra dinamiche normative ed economiche. Quello che però possiamo fare oggi è guardare con maggior distacco temporale e lucidità ciò che è accaduto proprio in conseguenza della riforma del 2012.
Un recente paper pubblicato dalla Banca d’Italia firmato da due ricercatori della stessa e da uno della University of California ha calcolato le conseguenze in termini occupazionali sui giovani tra i 15 e i 34 e sulla fascia 35-54 della maggior quota di occupati over 55 che l’aumento dell’età pensionabile ha generato dopo il 2012. I risultati sono interessanti perché consentono di smentire il credo secondo cui una crescita dei lavoratori anziani penalizzerebbe i giovani. Infatti un aumento del 10% della quota di lavoratori over 55, a causa di una maggior permanenza nel mercato del lavoro, sarebbe stato accompagnato da una crescita dell’1,8% della quota dei giovani e dell’1,3% di quella della fascia intermedia. Non una barriera in ingresso quindi, ma uno scenario di complementarietà, seppur con numeri diversi, tra le diverse età. Inoltre i ricercatori stimano che la produttività pro-capite non ha subito variazioni negative, come invece spesso si tende a pensare riguardo a lavoratori maturi che non avrebbero più il potenziale di un tempo.
Le cause di quanto osservato possono essere diverse. Da un lato la ricerca si concentra unicamente nelle grandi aziende dove i livelli di innovazione sono più elevati e quindi la domanda di nuova forza lavoro è maggiore. Dall’altro non si può ignorare che l’accumulazione di conoscenze ed esperienze dei lavoratori più maturi li renda in grado di valorizzare il loro capitale umano anche a fronte di cambiamenti tecnologici di processi e prodotti.
Un elemento che emerge è che le dinamiche occupazionali delle diverse fasce d’età seguono logiche differenti. Non è detto infatti che un pensionato che era adibito ad una particolare mansione debba essere per forza sostituito con un giovane lavoratore, potrebbe benissimo essere sostituito da un robot. Così come un giovane potrebbe essere assunto per gestire nuovi macchinari o nuovi software senza sostituire nessun pensionato. E inoltre di fronte a un costante calo della natalità e del conseguente svuotamento inesorabile delle coorti anagrafiche più giovani non basterebbe neanche il supposto ricambio generazionale a sostenere la domanda di lavoro nei prossimi anni, salvo non pensare di essere tutti sostituiti da robot, cosa che non sta accadendo.
Al contrario avremo sempre più bisogno di mantenere alto il numero di occupati in tutte le età, soprattutto in un Paese in cui le conseguenze negative in termini fiscali e contributivi del basso tasso di occupazione sono enormi. Sappiamo però che molte mansioni in molti settori non sono più fisicamente (e a volte anche psicologicamente) immaginabili oltre una certa età e questo è il motivo principale per il quale si spinge per politiche di contenimento dell’età pensionabile e di pre-pensionamenti che prosciugano le casse dello Stato. Per questo insieme ad una maggior attenzione a casi particolari è importante mettere a tema la sfida del rendere sostenibile il lavoro anche nell’ultimo miglio prima di una pensione che, inevitabilmente, arriverà più tardi rispetto ai decenni scorsi. L’accumulazione di capitale umano dei lavoratori più anziani, ad esempio, può essere messa a servizio dei più giovani, in una vera staffetta di conoscenze ed esperienze all’interno delle imprese. Si tratta quindi di abbandonare la retorica di uno scontro generazionale che è negato dai dati e costruire un lavoro sostenibile per tutti, anche grazie a quello che stiamo imparando in questi mesi.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Domani del 27 ottobre 2020 col titolo “Altro che Quota 100, serve un lavoro sostenibile per tutte le età”