I recenti dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile (46%) confermano la drammaticità del problema generazionale e l’urgenza di una strategia determinata a riaprire ai giovani le vie del lavoro. Sinora le strade battute sono state l’avvio del Youth Guarantee e il prolungamento sino a tre anni dei contratti a termine. Ma una terza via dovrebbe essere percorsa: quella di sostenere i giovani nell’autoimprenditorialità, nella creazione di lavoro indipendente.
I dati parlano chiaro. In Italia sono attualmente presenti 675.000 imprese giovanili, ovvero l’11% dello stock nazionale. Unioncamere stima che il 34% delle nuove imprese aperte in un anno solare sia costituito da under 35. Il loro tasso di evoluzione naturale (al netto delle cessazioni) è costantemente positivo, anche se al rallentatore negli ultimi anni.
Non ci meravigliamo: è da anni che le inchieste rilevano la forte propensione all’imprenditorialità e all’autoimpiego dei giovani del nostro paese. Altro che giovani “choosy” oppure fannulloni. Anche la propensione alla mobilità è aumentata: il 50% dei giovani si dichiara pronto ad andare all’estero per migliorare le proprie opportunità di lavoro; meno del 20% non è disposto a trasferirsi per motivi di lavoro.
Non mancano naturalmente i problemi. Il principale è la forte mortalità delle imprese giovanili nel corso del loro primo anno di vita, che è più elevata di quella media italiana. Se la volontà e le idee spesso ci sono, difettano invece la preparazione alla conduzione delle imprese, la capacità di lettura del mercato, una minima solidità patrimoniale o un accesso al credito che consentano di superare le prime difficoltà.
Tradizionalmente i giovani hanno trovato l’aiuto fondamentale all’avvio della loro attività all’interno delle loro famiglie. Le famiglie procuravano loro il patrimonio finanziario, l’esperienza e l’accompagnamento di cui necessitavano, e sostenevano nelle fasi di difficoltà. Oggi le famiglie sono ancora lì, ma non bastano. Anche l’amministrazione pubblica ha un importante ruolo da giocare.
Di cosa hanno bisogno? L’elenco non è così lungo come si potrebbe pensare. Innanzitutto serve un aiuto alla pianificazione strategica dell’attività: serve capire come fare un bilancio preventivo che stia in piedi, come collocare la propria competenza nel mercato in cui si intende operare, comprendere quale sia la dimensione aziendale compatibile con le fasi di avvio.
Questo accompagnamento alla nascita sarebbe fondamentale, e lo Youth Guarantee potrebbe giocare qui un importante ruolo. Basta che ad aiutare i giovani non vengano messi operatori che hanno solo il lavoro dipendente come prospettiva, e che come prima cosa offrano loro solo formazione di nuove competenze. Basta che l’aiuto non riguardi solo le questioni, pur importanti ma non decisive, di carattere amministrativo (quale forma legale assumere, ecc.). Servono infatti competenze più manageriali e di marketing che burocratiche.
Il tema del finanziamento è importante, ma da comprendere bene. Le imprese giovanili il più delle volte non richiedono l’investimento iniziale di grandi capitali. Oltre il 50% dei nuovi avvii ha una dotazione iniziale inferiore al 5 mila euro, e solo il 3% parte con più di 50mila euro.
Spesso sarebbe meglio uscire da questa dimensione micro e mettere insieme le risorse. Ma per fare questo la possibilità di accedere a finanziamenti agevolati sarebbe importante. Ci vorrebbe una Banca per l’imprenditorialità giovanile, esperta in strumenti finanziari micro, al confine con il micro-credito, e che sappia coniugare il credito con il sostegno allo start-up.
Infine, servirebbero servizi collettivi fondamentali per sostenere il consolidamento e il salto di scala. Le imprese giovanili, soprattutto nel Mezzogiorno, sono spesso di dimensione piccolissima (tre quarti delle nuove imprese sono individuali) e tendono ad operare su scala locale. Ma il salto di scala è decisivo per uscire dalla precarietà.
E per farlo servono preparazione tecnica e professionale specifica, allungamento della prospettiva oltre quella locale, attività di networking, apertura alla dimensione internazionale, scouting di competenze e nuove idee. Spesso imprese individuali e aperte da poco difettano di tutte queste cose, e restano confinate dentro il recinto della loro cerchia familiare e locale.
Qui servirebbero agenzie specializzate, radicate nei territori e capaci di offrire alle imprese giovanili queste risorse, promuovendo il pooling delle competenze, aprendo le reti di collaborazione, fornendo idee e opportunità di specializzazione, sfruttando al massimo le possibilità offerte dalle nuove tecnologie ICT.
L’esperienza dei distretti industriali insegna, e dovrebbe essere ripresa e ampliata anche per i territori a vocazione terziaria. Le agenzie per il lavoro dovrebbero svolgere qui un ruolo di promozione e incentivazione verso la creazione di questi beni collettivi locali.
L’Italia – non ci stancheremo di ripeterlo – possiede un serbatoio di vitalità e di spirito di iniziativa che ha pochi pari al mondo. È paradossale che non si riesca a trovare il modo di uscire dalla logica dell’improvvisazione e della buona sorte, per fare di questa risorsa un vero e proprio giacimento da coltivare e accrescere, soprattutto nei momenti di crisi e di difficoltà. Lo dobbiamo non solo alle nuove generazioni, ma all’intero Paese.