Gli immigrati rubano il lavoro agli italiani? E per questo motivo è necessario impedire o comunque limitare il loro arrivo? È questa una delle modalità in cui oggi si usa rappresentare l’epocale fenomeno migratorio al quale stiamo assistendo ormai da alcuni anni, alimentando paure, rancori e sentimenti avversi. Si tratta di un timore in parte comprensibile, in un Paese come il nostro con oltre 3 milioni di disoccupati ed enormi sacche di inattività soprattutto tra i giovani a cui spesso non resta altra alternativa che la fuga nel Nord Europa o negli Usa. Proprio per questo motivo è importante andare oltre le suggestioni e le paure e capire su basi scientifiche quali sono i dati di fatto e le tendenze di medio e lungo periodo.
I fenomeni migratori, lo sappiamo bene noi italiani più di tanti altri popoli, sono un fenomeno antico, oggi complicato dalla globalizzazione e da vere e proprie crisi umanitarie che alimentano incessantemente viaggi della disperazione. Eppure tutti i principali studi scientifici in materia confermano un quadro diverso da quello che viene presentato nel dibattito pubblico. In primo luogo i migranti si concentrano spesso e quasi unicamente in mestieri e settori professionali diversi da quelli ambiti e occupati dai lavoratori dei Paesi d’origine. Incrociando infatti i dati tra i lavori svolti dai migranti e dagli autoctoni si colgono spesso dinamiche di complementarietà e non di sostituzione, caso valido anche in Italia come recentemente sottolineato dall’INPS che analizza questi numeri. I tassi di occupazione stessi indicano come, pur trovando lavoro, i migranti fanno più fatica degli italiani. Secondo un recente rapporto OCSE infatti il tasso di occupazione dei lavoratori stranieri è di 2,5% inferiore a quello, già basso, italiano, numero che scende al 10% in meno nella fascia tra i 15 e i 29 anni. Si aggiunga che nell’ultimo semestre l’Istat ha rilevato un calo del numero degli inattivi tra la forza lavoro italiana e una crescita invece in quella straniera e l’aumento del tasso di occupazione se è stato dell’1,5% per gli italiani è stato dello 0,3% per gli stranieri. In secondo luogo uno studio interessante ha provato a calcolare le condizioni dei mercati del lavoro in diversi paesi nel 2025 se non vi fossero fenomeni migratori. I risultati parlano da soli, in Italia a causa dell’invecchiamento della popolazione mancherebbero 3,5 milioni di lavoratori sotto i 45 anni. Questo mostra chiaramente come spesso sia proprio il calo demografico delle società occidentali, l’innalzarsi dell’età media e contemporaneamente la richiesta di più beni e soprattutto di più servizi a elevare la domanda di lavoro che solo una buona dose di stranieri può saziare. Non per nulla un numero elevato di lavoratori immigrati sono oggi occupati nei servizi alla persona, ossia si occupano proprio di quel grande numero di anziani inattivi che contribuisce a renderli indispensabili per il nostro sistema socio-economico e per la sostenibilità dei sistemi di welfare pubblico.
Oltre a questo c’è la questione dei salari e della vulgata secondo la quale la concorrenza dei lavoratori stranieri sarebbe la causa principale della stagnazione dei salari. Una analisi cumulativa di decine di studi svolti negli ultimi vent’anni ha mostrato come l’impatto delle migrazioni sui salari dei cittadini nativi sia pari a zero, anzi spesso gli effetti negativi sui salari si manifestano proprio in confronto dei migranti stessi, con i nuovi arrivati che tendono a concorrere con la retribuzione di chi già era giunto nel Paese anni prima. In ultimo si aggiunga la tematica dell’apporto che questi lavoratori portano alle casse dello stato in termini di contributi. Come ha avuto modo di sottolineare il Presidente dell’INPS Boeri, infatti, la popolazione straniera in Italia contribuisce ogni anno con 8 miliardi nella casse dello Stato e, soprattutto in virtù della giovane età media, beneficia di circa 3 miliardi, con un saldo attivo di ben 5 miliardi.
Questi dati positivi nulla tolgono al fatto che spesso una parte dei migranti si trovi a lavorare in nero, alimentando il già pesante fardello dell’economia sommersa, o che a volte l’inattività degli stranieri sfoci più facilmente in attività criminali, come mostra il fatto che il 32% della popolazione carceraria è straniera, ma vogliono contribuire a mostrare l’infondatezza delle tante leggende che oggi, da discorso da bar, diventano spesso argomento politico per una manciata di voti. Spesso voti di coloro che, pur intervenendo pubblicamente contro gli immigrati, sono poi i primi nel privato a sfruttarli con salari da miseria e senza alcun rispetto umano di quelle loro sofferenze e debolezze che, spesso, non sono altro che il frutto dell’egoismo delle opulente società occidentali tra cui certamente anche la nostra.
Ma oltre alle analisi dell’impatto è possibile anche avanzare alcune proposte, con particolare riferimento ai rifugiati e ai richiedenti asilo, per migliorare una situazione che, come detto, presenta ancora diversi problemi. La più importante è l’urgenza di ridurre i tempi di assegnazione o meno dello status di rifugiato, infatti l’assenza di tempestività porta a disperdere competenze e persone che potrebbero essere risorse ma che non sono nelle condizioni giuridiche fondamentali per essere ammesse a pieno titolo nel mercato del lavoro. Insieme a questo la necessità di far coincidere il processo di assegnazione dello status a quello di mappatura delle competenze e di orientamento al mercato del lavoro, sempre per evitare dispersioni che possano poi sfociare nell’irregolarità diffusa.
Un tema complesso quindi, non senza luci ed ombre, ma che richiede la collaborazione di tutti per far sì che si possa creare un incontro tra bisogni, quello di popoli alla ricerca di una vita migliore e quello del mercato del lavoro italiano vecchio e senza le figure professionali di cui avrebbe bisogno.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University Press
Coordinatore scientifico ADAPT
Pubblicato anche su Avvenire, 28 ottobre 2016