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Bollettino ADAPT 2 settembre 2019, n. 30
Quale destino avranno i dialoghi riaperti dal fu governo gialloverde (o “gialloblu”, per dirla con la dicitura ufficialmente preferita dalla Lega) con le organizzazioni di rappresentanza del lavoro? È importante domandarselo perché dalla risposta dipende la verifica sia dello stato di salute dell’azione politica delle parti sociali, sia della considerazione della politica verso il dialogo con l’autonomia collettiva.
Riassumendo le puntate più recenti della vicenda, la sintonia di intenti tra Confindustria e sindacati grazie alla quale, a partire almeno dallo scorso febbraio, la rappresentanza era riuscita a guadagnarsi progressivamente un posto centrale nello scacchiere politico-mediatico, aveva già fatto registrare qualche slittamento con le critiche innescate dopo la scelta di accettare l’inusuale l’invito al tavolo da parte del Ministro degli Interni Matteo Salvini per trattare di questioni economiche (una su tutte la critica di Rino Formica sulle pagine del Manifesto: “perché quando la rappresentanza di lavoratori e imprese va da chi lo chiama -e non dall’interlocutore istituzionale- si autodeclassa a corporazione”).
Il coordinamento tra le diverse parti era poi andato perso con le diverse risposte fatte pervenire al messaggio con il quale Salvini chiedeva alle organizzazioni se ritenessero utile e possibile una nuova riunione il giorno 6 agosto, ribaltando con questa astuzia l’iniziativa. La UIL aveva infatti subito confermato la disponibilità per l’incontro già calendarizzato nel precedente confronto di inizio luglio. La CGIL di Maurizio Landini, la CISL e Confindustria avevano invece risposto evitando di convalidare il ruolo istituzionale che il Ministro Salvini tentava di intestarsi, rimandando pienamente a lui la scelta di una convocazione. Pur con qualche differenza, giacché solo il segretario della CGIL aveva precisato che non avrebbe comunque presenziato all’incontro, riconoscendo l’unica validità istituzionale al tavolo convocato dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte per il 5 agosto.
La sopravvenuta crisi di governo aveva poi rischiato di conclamare una rottura della già precaria strategia comune. Con un comunicato congiunto CGIL, CISL e UIL sostenevano la necessità di «risposte immediate di un governo nel pieno delle sue funzioni». Le diverse espressioni territoriali delle associazioni datoriali si erano invece mosse in senso diverso, sostenendo apertamente (a partire dal presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, passando per i presidenti di Confapi, Assindustria Veneto Centro, Confimi Industria) la necessità di elezioni (venendo quindi per questo poi citate da Salvini in Senato).
A correggere la posizione di Confindustria erano giunte poi le parole del presidente Vincenzo Boccia, che dalle pagine del Sole 24 Ore aveva chiarito che l’organizzazione di Viale dell’Astronomia non indicava una preferenza, ma una priorità essenziale: la chiara volontà di rimanere nell’orbita Europea occupando un posto di primo piano e rivedendo le scelte economiche nel rispetto delle regole comunitarie.
L’Europa era il punto fermo anche dell’ultimo comunicato congiunto di Confindustria, CGIL, CISL e UIL, alla rappresentanza avrebbe probabilmente giovato seguire da subito lo stesso metodo. Tuttavia la concordanza di base tra i messaggi delle diverse confederazioni pare essersi ristabilita, almeno stando alle parole rilasciate dai loro leader ai quotidiani nazionali (Il 25 agosto Landini al Corriere della Sera e Boccia al Foglio, Annamaria Furlan – CISL- a Repubblica il 26 Agosto). I due binari sulla quale si era sinora incardinato il comune orientamento delle organizzazioni sono ben scanditi in tutti e tre i testi: la prospettiva Europea per le scelte economiche e il taglio del cuneo fiscale.
Proprio su questo punto dovrebbe esercitarsi ora la pressione di Confindustria e sindacati, giacché una misura in questo senso sarà con ogni probabilità studiata dal nuovo governo, ma con la complicazione che il taglio del cuneo sarà abbinato con molta probabilità al salario minimo legale, indesiderato dalla rappresentanza, ma materia sulla quale PD e Cinquestelle hanno già presentato ognuno un disegno di legge.
Alcune differenze sostanziali e prevedibili però non mancano. Solo per stare all’esempio più eclatante, il ripristino del «reintegro tolto con il Jobs act», sempre più ribadito da Landini, è sostenuto nella Carta dei diritti universali depositata in Parlamento dalla CGIL e non nella piattaforma unitaria della triplice (il documento presentato il 22 ottobre 2018 che ha costituito la base della coesione sindacale nel confronto con la politica). Una richiesta di “discontinuità” che sembra essere rivolta alla componente del PD da sempre ostile verso il Jobs Act di Matteo Renzi.
Osservare le prossime mosse nel dialogo (o non non-dialogo) tra politica e sindacati diventa interessante proprio per gli schieramenti politici in gioco. La forza dimostrata dalle parti sociali nel corso dei 14 mesi del primo esperimento di governo populista (peraltro bi-populista) d’Europa, ha messo in luce la difficoltà dell’antipluralismo (vera caratteristica distintiva del populismo secondo il teorico Jan-Werner Müller) di ridurre all’entità omogenea del “popolo” le molteplicità di interessi che si aggregano dal basso. Si vedrà quindi ora se, nonostante le diverse inclinazioni originarie all’interno del PD, e tra PD e Cinquestelle, verso la rappresentanza, la politica darà un segnale di continuità sul piano del metodo, oppure procederà nella convinzione di poter, o dover, fare da sé. Non solo in campo economico, ma anche sul terreno di specifica competenza sindacale, come quello del salario.
Se è vero che sia il Segretario del PD Zingaretti sia il leader politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio hanno organizzato di recente incontri con le parti sociali, alcuni aspetti indicano invece il rischio che i tavoli restino ora interrotti. Lo scarso tempo a disposizione per formare un governo e redigere la Nota di aggiornamento al DEF potrebbe indurre a seguire vie più brevi ed accantonare il confronto avviato. D’altronde le parti sociali non sono state coinvolte nelle consultazioni del premier incaricato Giuseppe Conte (che proprio da loro aveva avviato quelle tenute lo scorso anno). E nemmeno i temi del lavoro costituiscono il pomo della discordia tra Movimento Cinquestelle e Partito Democratico (si veda l’analisi di Emmanuele Massagli).
D’altro canto potrebbe profilarsi uno scenario nel quale la presenza di diverse anime nel Partito Democratico porti alla prosecuzione del dialogo, seppur promosso solo da una parte politica. In questo scenario sarebbe meno necessaria quella pressione unitaria volta proprio a guadagnarsi una posizione di rilievo. E potrebbe anzi essere più probabile la che la spinta di istanze diversificate, che rispondono d’altronde alle diverse culture presenti nel mondo della rappresentanza, prevalaga sulla compatezza delle proposte. Compromettendo quindi la capacità della rappresentanza di proporsi, attraverso almeno alcune linee di indirizzo condivise, come interprete responsabile della complessità delle trasformazioni del lavoro.
A prescindere quindi del mantenimento in vita di un canale istituzionale, la domanda ancora più importante riguarda il grado di coesione e di elaborazione delle proposte che provengono dal mondo della rappresentanza, che non dovrebbe accontentarsi di avere un riconoscimento istituzionale, ma dovrebbe rivendicare la validità delle sue letture in un quadro sufficientemente complicato da richiedere un contributo di modernità da parte di chi con il mondo del lavoro interagisce quotidianamente.
ADAPT Research Fellow