Politically (in)correct – Guerra alle delocalizzazioni? Va avanti tu che a me viene da ridere

Bollettino ADAPT  20 dicembre 2021, n. 45

 

Come è finita la campagna estiva contro le società multinazionali che “trattano il nostro Paese come una colonia” e chiudono gli stabilimenti con gli strumenti del web (come peraltro fanno i Capi si Stato per comunicare tra loro)? “No alle delocalizzazioni!” è risuonato nelle piazze (magari non nelle stesse né tra le medesime persone) insieme all’altro grido di ribellione (libertà vo’ cercando!) del “No al green pass”.  Per correttezza sentiamo l’opinione dei sostenitori di un provvedimento contro le delocalizzazioni. Uno dei più qualificati è certamente Stefano Fassina – che fu vice ministro dell’Economia e che coerentemente si dimise in disaccordo con le politiche del governo di cui faceva parte – il quale ha scritto su Huffington Post: “Ora, le norme introdotte via emendamento nel Disegno di Legge di Bilancio in discussione al Senato sono rubricate, correttamente, come “Disposizioni in materia di cessazione di attività produttiva”. Non hanno elementi di deterrenza, né alcuna funzione anti-delocalizzazione. Sono soltanto misure di razionalizzazione delle procedure di licenziamento collettivo e di ordinato accesso agli ammortizzatori sociali. Prevedono – ha proseguito Fassina – un minimo di buona educazione nella comunicazione del licenziamento da parte di una grande impresa (oltre 250 dipendenti) che, senza dimostrare squilibri patrimoniali o problemi finanziari, chiude’’.

 

Dal suo punto di vista Fassina ha ragione. Per fortuna diciamo noi; perché la prima bozza che era circolata durante l’estate aveva creato qualche preoccupazione, in chi è convinto che non esistano libertà politiche in mancanza o in costrizione di libertà economiche. Ma anche dalla parte opposta la bozza Orlando-Todde era considerata abbastanza debole soprattutto sul piano delle sanzioni per le “multinazionali” trasmigranti alla ricerca di minori costi e maggiori profitti. Non è un caso però il non aver considerato che non sempre le delocalizzazioni si rivolgevano ad Est, in quei Paesi in cui i salari sono bassi (ovvero sono in rapporto con le loro condizioni socioeconomiche), ma che talvolta, al pari dei cavalieri erranti, sono salite al Nord. Tanto che un gruppo di giuristi avevano assistito la RSU della GKN (l’azienda divenuta il simbolo di questa battaglia) nel predisporre un progetto di legge più rigoroso presentato alla Camera appoggiato da ventisei firme e al Senato da un numero più o meno uguale. Sono tutti parlamentari di minoranza (gruppo misto, Potere al Popolo…).

 

In proposito è bene essere chiari per non creare equivoci: i lavoratori hanno il diritto di difendere il proprio posto di lavoro; le imprese sono tenute a seguire delle procedure stabilite dalla legge e a tenere una linea di condotta di leale fair play, rispettosa delle controparti e delle istituzioni. Questo vale pure per le imprese a capitale straniero che operano sul territorio italiano. Anche se alcune di loro – di fronte a importanti modifiche organizzative e produttive – possono essere indotte, non già a perseguire obiettivi di abietto sfruttamento, ma a pretendere almeno quella flessibilità che è consentita e regolata dalla legge e dai contratti. Cosa che – sembra – non era condivisa dalle strutture sindacali aziendali, a leggere quanto ha dichiarato in una intervista un esponente della RSU.
 

“Per quanto riguarda le nostre battaglie, invece, in questi anni abbiamo lottato per accordi migliorativi: abbiamo ottenuto l’applicazione dell’articolo 18 del 1970, abbiamo lottato perché i fine settimana rimanessero liberi e non ci fosse nessun altro tipo di straordinario, se non volontario… Abbiamo lottato, inoltre, per avere un maggiore diritto di informazione rispetto alla multinazionale e al fondo finanziario, che erano tenuti ad incontrarci tutti i mercoledì per dire cosa succedeva la settimana dopo (ad esempio se esternalizzavano i volumi oppure no”. Si dirà che gli accordi in azienda si fanno insieme; ma all’occorrenza si modificano insieme qualora, per esempio, emerga l’esigenza di una migliore saturazione degli impianti, attraverso l’organizzazione di più turni. Tutto ciò premesso, è comunque discutibile che si cerchi un’impossibile via legislativa per contrastare le delocalizzazioni anziché la linea tradizionale del negoziato, fino al rischio di determinare (sul piano economico-produttivo) un “incidente internazionale” che alla fin dei conti può essere controproducente perché il nostro è un Paese che de-localizza come tutti (23mila aziende italiane hanno investito all’estero con 1,8 milioni di dipendenti contro 15mila imprese a capitale estero presenti in Italia con 1,5 milioni di dipendenti); inoltre, le misure di protezionismo sono armi a doppio taglio perché inducono, prima o poi, analoghe ritorsioni da parte degli altri Paesi operanti all’interno del medesimo mercato.
 

Una legge contro le delocalizzazioni è una scelta oggettivamente “ideologica” che intende salvare il posto di lavoro imponendo una visione dell’economia con regole diverse da quelle operanti nell’era della globalizzazione: occorre vincere – è questa la deriva ideologica e perciò strumentale – sul piano politico creando alle imprese vincoli tali da costringerle ad operare dentro regole diverse. E se questo non succede la responsabilità è di chi tentenna ad adottare quelle norme. Tanto che, quando si è aperta la possibilità di uno sblocco della vertenza secondo le procedure tradizionali, si è avuta l’impressione che il kombinat antidelocalizzazioni sentisse di aver perduto la strada maestra che aveva imboccato fin dall’inizio, scegliendo la GKN come l’emblema di una serie di conflitti aperti con società a capitale straniero (Embraco, Whirlpool, ecc.). Infatti, le ultime notizie – grazie anche alla lotta dei lavoratori – non sono negative. “Si apre uno spiraglio – si legge nelle agenzie – per i lavoratori della GKN di Campi Bisenzio dopo l’incontro con l’azienda al Ministero dello sviluppo economico. La proprietà ha aperto alla possibilità di un percorso condiviso con le istituzioni, senza minacciare l’avvio di una nuova procedura di licenziamento collettivo e non sarebbe pregiudizialmente contraria neppure alla possibilità di fare marcia indietro sulla messa in liquidazione. Per quanto riguarda la questione occupazionale, alcuni incontri tecnici nei prossimi giorni verificheranno la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali. Soddisfazione da parte dei sindacati’’, per i quali dovrebbe suonare un campanello di allarme di carattere più generale.

 

Le aziende che de-localizzano, che ristrutturano o chiudono – almeno le più importanti – non “stanno a pettinare le bambole”, ma appartengono alla filiera dell’automotive e sono pertanto una anticipazione di processi ben più ampi, che si verificheranno nel giro di qualche anno (va segnalato, in proposito, un servizio divulgativo sul Corriere della sera e sul Tg7 di Milena Gabanelli) in conseguenza delle modifiche tecnologiche e produttive, annunciate forse con troppa fretta. Ma la riconversione verso un’economia verde, anche se meno schematica ed unilaterale, non potrà non determinare delle serie conseguenze. E quei fondi – il cui compito è tutelare gli investimenti, i risparmi a lungo termine delle persone – è bene che guardino avanti. In ogni caso, per inerzia – sia pure dismettendo il nome di battaglia alle delocalizzazioni – quella misura, trasformata in emendamento del governo (art.77bis) è destinata ad entrare a far parte della legge di bilancio.
 

Non vi sono più annunci roboanti del “non passa lo straniero”, in quanto tutte le imprese sopra i 250 dipendenti saranno tenute ad applicare la nuova disciplina che rinforza l’impegno “sociale” delle aziende che ritengono di dover licenziare (almeno 50 dipendenti) o chiudere in tutto o in parte le attività. La differenza più importante è la seguente: non vi è più la pretesa di ritenere sane queste aziende e accusarle di chiudere apposta. Diciamoci la verità: l’emendamento non è acqua fresca. Gli adempimenti aumentano come anche le sanzioni economiche previste dalla legge n.92 del 2012. C’era, poi, da aspettarsi che i parlamentari sostenitori della “legge operaia”, redatta da un gruppo di giuristi “progressisti”, avrebbero bocciato l’emendamento Orlando-Todde (aggiustato da Giorgetti): “Si tratta di una foglia di fico per salvare le apparenze – commenta Yana Ehm del gruppo misto – ma che non modifica di una virgola la situazione”. Ai parlamentari aderenti alla “legge operaia” si rivolge Nicola Fratoianni di Sinistra italiana: “Poiché il governo ha prodotto una norma che non è contro le delocalizzazioni, mi rivolgo ai senatori progressisti: sostenete l’emendamento con la proposta dei lavoratori GKN”. A inconfutabile prova che il problema principale non era quello di salvare una unità produttiva e il relativo personale, ma affermare il principio che l’economia è vittima della globalizzazione. A questo proposito è doveroso segnalare un articolo su Linkiesta di Carmelo Palma il quale, partendo dal recente sciopero generale, svolge un’analisi che spiega – si parva licet – anche la linea di condotta nella vertenza GKN. “La CGIL e buona parte della sinistra politica e sindacale – scrive Palma – ritiene che l’Italia, negli ultimi decenni, abbia duramente patito le trasformazioni del capitalismo globale non per averne sciupato le opportunità e averne declinato le sfide, ma per non essersi chiamata fuori dai suoi ingranaggi e non avere dichiarato la secessione economica e morale dalle sue ingiustizie’’.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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