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Potrà la recente proposta di direttiva sul salario minimo contribuire a risolvere in modo credibile e duraturo il nodo dei bassi salari che riguarda buona parte dei Paesi europei, Italia in primis? Personalmente nutriamo più di un dubbio e, a ben vedere, è lo stesso documento di valutazione di impatto della Commissione europea a riconoscerlo se è vero che in 9 dei 21 Paesi dove è stato introdotto un meccanismo di legge, da ultimo la Germania, «il salario minimo legale non ha tutelato i lavoratori dipendenti dal salario minimo dal rischio di povertà» (pagina 5).
Non che la questione salariale non esista e non sia oramai diventata una vera emergenza che è giusto porre al centro del dibattito. Il punto, tuttavia, è se vogliamo affrontarlo in termini puramente difensivi e senza certezza sul risultato o se non è venuto il momento di porre al centro della riflessione pubblica e del dialogo tra il Governo e le parti sociali il nodo del costo del lavoro e quello della bassa produttività che sono il problema mentre i bassi salari sono una loro inevitabile conseguenza. Perché la proposta di salario minimo, che sia per legge o anche per contratto collettivo, è ancora incardinata sul valore standardizzato dell’ora-lavoro e dunque, come possibile soluzione, ci pare l’epigono della contesa industriale del secolo scorso senza tenere conto delle profonde trasformazioni del lavoro e anche della progressiva frammentazione di un mondo del lavoro un tempo edificato attorno alla netta separazione tra il lavoro subordinato e quel lavoro autonomo che pure oggi avanza con forza la questione del compenso equo. Là dove invece la proposta di direttiva, di cui peraltro si discute del fondamento normativo visto che l’Unione Europea non ha competenza sulla materia salariale, è ancora rigorosamente circoscritta al solo lavoro dipendente e dunque al mercato del lavoro del Novecento. Con ciò dimostrando la sua incapacità di intercettare i problemi più profondi del mercato del lavoro e segnatamente l’emersione di un mercato delle professionalità e delle competenze che reclama nuove forme di rappresentanza e tutela e che comunque fugge dalla standardizzazione propria dei modelli di produzione fordisti e del trattamento retributivo basato sull’ora-lavoro.
Una questione non da poco, ne siamo consapevoli, e che per essere affrontata impone di riconoscere la centralità dei corpi intermedi e di una rappresentanza che certo è chiamata a ripensare struttura e organizzazione per meglio intercettare le dinamiche di filiera e le catene globali del valore che è poi la vera e unica fonte della ricchezza. Il problema quindi è quello di ripensare ruolo e funzione della rappresentanza e la costruzione dei mercati del lavoro e da lì procedere ad aggredire il nodo della redistribuzione del valore creato magari dentro un contesto di fiscalità e contribuzione meglio allineato alla evoluzione dell’economia e della società e non penalizzante come quello attuale.
Anche per questo, da un angolo di osservazione puramente italiano, l’impressione è che questa proposta possa essere utilizzata dalla nostra politica per sferrare un attacco finale alla rappresentanza. E più quelli che il professor Mario Grandi chiamava i “falsi amici della rappresentanza” affermano che il sindacato nulla deve temere da questa proposta, più pensiamo che essa sarà invece fortemente strumentalizzata per obiettivi che sono lontani dalla lotta al lavoro povero e che riguardano l’incorporazione e normalizzazione della rappresentanza dentro uno Stato incapace di valorizzare l’autonomia e incoraggiare il dinamismo dei corpi intermedi per governare le imponenti trasformazioni del lavoro. Insomma, la legge sulla rappresentanza e l’erga omnes sono dietro l’angolo. Non è forse un caso che, all’indomani della sua approvazione, Nunzia Catalfo e Yolanda Díaz, i Ministri del lavoro di Italia e Spagna, abbiano pubblicato su due autorevoli quotidiani dei rispettivi Paesi una sorta di manifesto celebrativo della proposta. Quasi come se non si aspettasse altro che questa iniziativa comunitaria per smuovere le acque dei rispettivi dibattiti nazionali che, con crescente fatica, cercano di prendere le misure con i sempre più complessi problemi del lavoro e con un dialogo sociale che procede a fasi alterne, decisamente meglio in Spagna che in Italia dove è ridotto al lumicino.
Il tema non è certo nuovo. Fin dalle prime bozze del Jobs Act è entrato con forza nel dibattito italiano, nel pieno della stagione della disintermediazione e della proclamata autosufficienza della politica rispetto alle istanze dei corpi intermedi, per vedere poi presentate, negli ultimi anni, diverse proposte di legge. Una di queste iniziative legislative porta proprio come prima firma quella del Ministro Nunzia Catalfo. Il fatto che la Commissione Europea rilanci il tema con una direttiva, e non con semplici raccomandazioni, potrebbe essere un ulteriore strumento nelle mani del governo che non ha mai nascosto di volersi muovere in questa direzione, pur di fronte alla contrarietà della maggioranza delle parti sociali.
I problemi sollevati dalla proposta di direttiva europea vanno dunque oltre il campo del salario minimo e impongono di ripensare la persistente attualità o meno del metodo delle relazioni industriali, e cioè della rappresentanza e della contrattazione, per determinare il valore economico di mercato dei mestieri nei diversi settori produttivi e sostenere al tempo stesso le dinamiche della produttività e della giustizia sociale. Le criticità sono dunque tante ed evidenti in una stagione che conosce l’esplosione dello smart working e del lavoro per obiettivi che, come noto, è affidato alla pura contrattazione individuale. Col rischio di istituzionalizzare il crescente dualismo del mercato del lavoro con un sindacato per un verso schiacciato sulle componenti più basse del mercato del lavoro e per l’altro verso estromesso dalla rappresentanza del lavoro professionalizzato che non a caso registra una esplosione di forme innovative di rappresentanza di nuova generazione in antagonismo con la triplice (si veda AA.VV., Il futuro delle professioni nella economia 4.0 tra (nuove) regole e rappresentanza, ADAPT University Press, 2018). Ma anche per la rappresentanza d’impresa i rischi non sono pochi e non si limitano alla frammentazione dei mercati e delle dinamiche nazionali della concorrenza tra le imprese. Forte è il rischio di cedere alle lusinghe di una spesso sognata irrilevanza indipendenza dal sindacato in una stagione in cui, invece, le dinamiche della concorrenza e della competizione delle imprese necessitano di una forte coesione tra capitale e lavoro secondo logiche partecipative e di condivisione degli obiettivi aziendali anche in chiave di nuove premialità che sono poi quelle che portano a investire sul fattore lavoro e a riconoscere quei congrui trattamenti retribuitivi a cui la direttiva si ispira.
Questo non vuol dire negare l’urgenza di risolvere la questione dei bassi salari, soprattutto di quelli determinati dall’informalità e dal lavoro nero, così come da forme di dumping contrattuale costruite ad arte per abbassare le retribuzioni dei lavoratori. E sappiamo anche che molti dei lavoratori vittime di questo sistema sono quelle che meno solo legate a quelle logiche di scambio moderno di cui abbiamo parlato. Lo stesso documento di valutazione di impatto della Commissione Europea riconosce (pagina 8) come molti dei problemi legati ai salari derivino proprio da una eccessiva polarizzazione che si è generata negli ultimi anni a partire dalle complesse trasformazioni tecnologiche e demografiche.
Ma non possiamo con questo pensare di minare alle fondamenta un sistema della rappresentanza che pur con tanti acciacchi consente ancora oggi pluralismo e autonomia delle parti. Per questo la strada, anche per questa fetta di lavoratori, spesso giovani, donne e stranieri, è quella di una rappresentanza che sappia allargare i suoi spazi ed esercitare il suo ruolo anche verso quelle forme di lavoro che sfuggono, in peggio, ai suoi tradizionali canoni. Questo ci consentirebbe di ripensare il valore stesso del lavoro e di produttività che non può sempre e comunque essere fondato su un valore aggiunto quantificabile ma su un valore qualitativo, come può essere quello portato nella vita delle persone dai risultati del lavoro di cura (che tanto abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi), che è tutto da ripensare.
In ultimo è sempre il documento della Commissione (p. 9) a ricordarci quanto il tema del costo del lavoro incida nel determinare da un lato il netto in tasca ai lavoratori e, dall’altro lato, aggiungiamo noi, la scelta (non certo da legittimare) di optare per il lavoro irregolare o comunque di zavorrare in modo spesso insostenibile le imprese che si impegnano a operare nella legalità. Quello che è chiaro però è che proprio la forte presenza di lavoro irregolare e di tassi di occupazioni bassi determina l’elevata componente fiscale e contributiva che pesa sui salari. Un nodo questo che non possiamo lasciare in secondo piano parlando di salario minimo. Ulteriore elemento che ci conferma in un approccio cauto che tenga conto di impatti che vanno ben oltre la definizione di una cifra nazionale.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@MicheTiraboschi