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Bollettino ADAPT 14 dicembre 2020, n. 46
Lo sciopero dei dipendenti pubblici indetto dai sindacati confederali il 9 dicembre scorso non ha certo potuto lamentare il disinteresse dei media e della politica. Per almeno due settimane il capitolo è comparso quotidianamente sulle pagine dei quotidiani e nelle scalette dei talk show nazionali. Due settimane durante le quali i sindacati sono parsi essere soli contro tutti data la netta tendenza della politica degli osservatori a formulare unanimi sentenze di condanna sull’utilità e sull’opportunità dello sciopero. Eppure alcuni importanti aspetti del confronto tra sindacati e il datore di lavoro pubblico sono stati trascurati.
Le argomentazioni delle condanne generalizzate si basano sull’ipotesi che lo sciopero avrebbe rinforzato il giudizio comune degli italiani vero il lavoro pubblico generalmente inteso (sinonimo di burocrazia e inefficienza). Uno sciopero indetto in questo comparto (per di più corredato dall’esca del prolungamento del ponte dell’Immacolata) rappresentava quindi il non plus ultra di una spudorata difesa di privilegi. Soprattuto se si considera che, come suggeriscono i dati Istat, tra i tanti dualismi del mercato del lavoro italiano (giovani e anziani, insider e outsider, uomini e donne, dipendenti e autonomi) la pandemia ha reso più ampio ed evidente il divario tra i cosiddetti garantiti e i non garantiti. E va da sé che i dipendenti pubblici siano percepiti come i maggiori rappresentati dei primi.
In queste condizioni insomma la speranza di poter comunicare in maniera convincente le ragioni dello sciopero, quali che fossero, era quantomeno eccessiva. Tanto che anche i commenti più autorevoli potevano dichiarare di prescindere dal merito della vertenza. Per tutti, il miglior rappresentante è stato il premier Giuseppe Conte che, ospite a Otto e Mezzo (LA 7), ha dichiarato: «Lo sciopero è un diritto, non entro nel merito della decisione […]. Ma non credo sia questo il momento di scioperare».
Posto che scaricare sui sindacati la colpa di sollecitare pregiudizi confermando al contempo di ritenerli motivati è quantomeno contradditorio (si veda per un eminente esempio l’articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti pubblicato su la Repubblica dal titolo “Sciopero del 9 dicembre, salvate l’onore degli statali”), è vero che il quadro della situazione non era sconosciuto alle federazioni del pubblico impiego, che hanno quindi commesso alcuni errori strategici. Su tutti la scelta tardiva di incentrare la comunicazione dello sciopero attorno all’hashtag #rinnoviamolapa, sintesi interpretativa dell’obbiettivo negoziale, espresso anche nelle interviste dei segretari confederali (si veda per esempio Maurizio Landini su la Repubblica il 6 dicembre: “decidere nuove assunzioni, gestire i cambiamenti digitali e valorizzare le professionalità nel lavoro. Scioperiamo per cambiare la pubblica amministrazione”). Beninteso, l’impostazione della vertenza su quattro capitoli rivendicativi e non solo sui rinnovi contrattuali (assunzioni, sicurezza, stabilizzazioni) è stata perseguita sin dall’inizio, e che quelle rivendicazioni configurassero una pressione per l’innovazione della PA era espresso già nel volantino diffuso dai sindacati nelle settimane precedenti. Ma le federazioni del lavoro pubblico hanno cominciato a battere sul motto unico #rinnoviamolapa solo quando ormai la loro agenda era già stata compressa dai detrattori sulla questione contrattuale. Per di più facendone un fuoco di paglia estintosi subito dopo il 9 novembre, almeno se si guarda al destino dell’hashtag su Twitter. Ciò anche se la vertenza non è conclusa ed entra ora nel vivo del confronto col Ministero della Funziona Pubblica.
(dati raccolti da Catchy Big Data )
Il secondo aspetto riguarda proprio l’atteggiamento sibillino della controparte Ministeriale. Con la lettera inviata al Messaggero il 6 dicembre, tre giorni prima dello sciopero, la Ministra Dadone dava l’impressione di voler raccogliere la sfida dell’innovazione posta dal sindacato. Basti leggere il titolo “Guardiamo al futuro del lavoro, il contratto sarà uno spartiacque”. Il tutto con toni concilianti, denunciando i tentativi di “divaricare [la] crepa prodottasi tra il mondo privato e quello pubblico cercando di rilanciare l’immagine di un corpaccione pubblico fannullone, pretenzioso, negligente e ingiustamente tutelato dalle istituzioni. Credo, anche per questo motivo -proseguiva la ministra- , che sia opportuno definire un paio di aspetti e offrire ai lavoratori e alla opinione pubblica, e perché no anche alle stesse organizzazioni sindacali, una prospettiva meno miope, non divisiva, e certamente meno suggestiva dell’immaginario belligerante dello scontro testa a testa”.
Di questa apparente mano tesa vanno però osservate alcune contraddizioni. Innanzitutto, dopo aver “dato atto alle stesse organizzazioni sindacali […] che l’aspetto finanziario è solo uno degli aspetti cui si deve prestare attenzione” e dopo aver riconosciuto agli stessi “una capacità di poter comprendere che, almeno in questa fase, nuove ingenti risorse per la contrattazione non potranno essere garantite”, la ministra avanzava una proposta proprio sul piano retributivo. Per andare incontro alle fasce più basse si sarebbe potuta stabilizzare la misura temporanea dell’elemento perequativo alzando di fatto i minimi. Inoltre i risparmi dovuti al lavoro a distanza avrebbero potuto essere destinati ad un fondo per la contrattazione decentrata.
A prescindere dalla sua qualità tecnica, la proposta giunta a soli due giorni dallo sciopero metteva i sindacati in una brutta situazione: se avessero revocato lo sciopero, avrebbero abilitato le proposte del Ministro come una conquista facendo tabula rasa dell’articolata rivendicazione. Se lo avessero confermato, come poi fatto, avrebbero alzato la palla una volta di più ai i detrattori, dimostrando lo stesso oltranzismo ed egoismo che viene loro addebitato.
In secondo luogo va osservato che la proposta della ministra giungeva non già direttamente ai sindacati, ma ancora attraverso la pubblicazione su un quotidiano nazionale, proprio nella stagione in cui tutte le parti sociali stanno rivendicando metodi di confronto all’interno dei canali istituzionali e non in prima istanza sulla pubblica piazza (si vedano a riguardo le interviste per la rubrica “A tu per tu con la rappresentanza” a Marco Cuchel e a Pierpaolo Bombardieri sul Bollettino ADAPT n. 46/2020).
A completare il chiarimento dell’intenzione ministeriale è arrivata poi l’intervista della ministra stessa su La Stampa il giorno seguente lo sciopero. Con la quale Dadone puntava, neppure troppo velatamente a sostituire il sindacato non solo nel suo ruolo di intermediario con i lavoratori, ma nel suo ruolo di difesa degli stessi. E ciò proprio sul tema dell’innovazione posto dal sindacato (“l’ho visto con i miei occhi, [i lavoratori] hanno saputo raccogliere la sfida del cambiamento. Io questi lavoratori li voglio e li devo difendere, nei fatti più che con gli slogan e le bandiere”). Col risultato per converso di affermare che i sindacati avessero scelto, confermando lo sciopero, di arrecare danno, piuttosto che beneficio, ai lavoratori. E cioè cavalcando per fatti concludenti la stessa onda che pochi giorni prima la Ministra aveva denunciato.
Insomma, il sindacato del pubblico impiego per ora esce dalla vicenda forse più debole di come vi era entrato, ma individuando il frame sul quale potrà battere da qui in avanti per spostare il dibattito pubblico dalla contrapposizione tra garantiti e non garantiti alla efficienza di una pubblica amministrazione a servizio del cittadino. Resta poi valido il principio secondo cui non può esistere un messaggio sostenibile senza provvedimenti coerenti. E quindi le rivendicazioni dei sindacati dovranno essere dettagliate secondo questa logica. Ma questa è una pagina che può ancora essere scritta.
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia