Il carcere rieduca se il lavoro è vero

Un forte impegno ideale e progettuale quello di chi ha collaborato agli Stati Generali sulla esecuzione della pena promossi dal Ministero della Giustizia. I lavori sono praticamente terminati. Molti gli esperti e gli addetti ai lavori coinvolti. Fatica tuttavia ancora a decollare il dibattito pubblico sulla situazione dei detenuti nelle carceri. Ancor più oggi, in una situazione di crisi economica e occupazionale che pare relegare gli ultimi in un limbo di indifferenza e sofferenza.

 

Il Ministro della Giustizia Orlando, proprio su questo giornale, ha ripreso le parole del recente messaggio per la giornata della Pace in cui il pontefice affronta in un importante passaggio il tema delle condizioni delle carceri. È positivo il dato che ricorda il Ministro sugli aspetti quantitativi della capienza delle carceri, è importante però guardare anche alla qualità dei periodi di detenzione e quello che accade una volta scontato il periodo di pena. Lo stesso Papa ha centrato l’attenzione sulla “finalità rieducativa della sanzione penale”. Ma come avviene oggi questa rieducazione, se avviene? Ci aiutano alcuni numeri, in primis quelli sulla recidiva, ossia su quanti ex-carcerati tornano a delinquere una volta scontata la pena. I dati ufficiali sulla recidiva dicono che il 68,5% degli ex-detenuti commettono reati dopo essere usciti di prigione, numeri più realistici parlano dell’80% e oltre. Al contrario i detenuti che durante il periodo in carcere hanno la possibilità di lavorare, hanno una percentuale di recidiva inferiore al 10%. Con il lavoro si aprono importanti opportunità di socializzazione e reiserimento ma si apre anche un percorso individuale della scoperta di sé, della propria identità, e della relazione con l’altro.

 

Da sempre si riconosce come il lavoro possa rispondere alle esigenze rieducative della esecuzione della pena che l’articolo 27 della nostra Costituzione sancisce. Il problema si pone però guardando i numeri di coloro che lavorano oggi nelle carceri italiane. Su una popolazione carceraria di 53.623 persone, solo 2.324 hanno una opportunità di conoscere il lavoro vero (poco più del 4%). Sono circa 12.000 invece i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione carceraria senza tuttavia grandi possibilità di professionalizzazione e imparare un mestiere. Altissimo il tasso di disoccupazione, oltre il 95%.

 

Per lavoro vero intendiamo un lavoro del tutto corrispondente a quello di una persona libera con un datore di lavoro esterno (in Italia spesso una cooperativa sociale): un mestiere, insomma, che impone specifiche mansioni a cui corrisponde una equa retribuzione. Al contrario la maggior parte dei detenuti che oggi lavorano è “assunta” dalla amministrazione carceraria per svolgere, per poche ore, quelle mansioni interne alla prigione poco o nulla qualificanti chiamate ancora con nomi più che novecenteschi come lo spesino, lo scopino e lo scrivano. Lavori pagati non con un vero salario ma con una misera mercede e che poco hanno a che fare con il mercato del lavoro che i detenuti incontreranno una volta scontata la pena.

 

Dietro alla necessità di risolvere questa grave situazione, che ha conseguenze sia sui detenuti che, a causa della recidiva, sull’intera società, vi è una idea della persona e del lavoro che è oggi ancor poco diffusa. Spesso il detenuto è definito unicamente per il suo sbaglio, per il reato commesso. E il carcere è unicamente il luogo fisico in cui si è condannati a scontare la pena. Un luogo quindi che serve unicamente a impedire il contatto tra il mondo esterno e colui che ha sbagliato, in chiave di protezione della società in contraddizione con il bene e la centralità della persona stessa.

 

Se, per tutti noi, il lavoro è uno degli aspetti centrali della vita e della nostra crescita attraverso una identità professionale e non sono una variabile economica, ciò, a maggior ragione, vale per il detenuto. Negare il diritto al lavoro non equivale infatti a sanzionarlo per il delitto che ha commesso ma privarlo uno degli aspetti salienti della vita: la relazione con le persone e con la realtà. Nulla a che vedere con la rieducazione di quello che spesso si ritiene un malvagio o un primitivo. Si tratta dell’educazione della persona, di tutte le persone, attraverso il lavoro. Anche e a maggior ragione quelle persone che hanno sbagliato e che vedono nel lavoro una occasione di recupero del senso della vita e di riscatto sociale nella relazione con gli altri. Per questo il lavoro da prospettare ai detenuti deve essere un lavoro vero, non occasioni fittizie e di dubbia qualità. Tanto meno ipotesi di lavoro in cambio di sconti di pena che, oltre ad essere di dubbia legittimità rispetto ai principi costituzionali di retribuzione sufficiente, finirebbero per snaturare quella dimensione educativa e formativa propria del lavoro inteso non solo come scambio ma come relazione tra persone.

 

Esistono molte esperienze interessanti nel nostro Paese, soprattutto grazie a quelle cooperative sociali animate da persone che ogni giorno impegnano tempo, pazienza e risorse per consentire ai detenuti italiani, tra mille ostacoli e difficoltà, una possibilità in più di incontrare il lavoro vero. Un primo sforzo potrebbe essere quello di iniziare a guardare a quello che già accade e, forti dei risultati, favorire la massima diffusione dei modelli virtuosi in una ottica di sistema anche attraverso coraggiose sperimentazione.

 

Su tutte i percorsi di apprendistato e alternanza scuola lavoro anche in considerazione del basso livello di scolarizzazione dei detenuti. L’anno della Misericordia da poco aperto dal Papa potrebbe essere l’occasione migliore per fare qualcosa di concreto per chi in passato ha sbagliato e sta pagando, affinché la pena non sia una vessazione inutile e non continui oltre le mura del carcere.

 

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

Francesco Seghezzi

Direttore ADAPT University Press

@Francescoseghez

 

* Pubblicato anche in Avvenire, 30 dicembre 2015.

 

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