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Bollettino ADAPT 29 novembre 2021, n. 42
Don Ferrante era «uomo di studio, al quale non piaceva né comandare né ubbidire» (Promessi Sposi, Cap. XXVII, par. 330). Enciclopedico come la gran parte degli studiosi dell’epoca, si dilettava di scienza e di filosofia, ma anche di astronomia, stregoneria e di arti cavalleresche. A contrastare le sue idee “negazioniste”, inizialmente sostenute dalle Autorità dell’epoca e dalla gente comune per la comprensibile paura di accettare una verità così allarmante, esistevano scienziati e medici che non facevano mistero della realtà, pur nella consapevolezza che il dramma della peste andava in quel momento a sovrapporsi ai problemi di una guerra senza fine e di una carestia che stava attanagliando gran parte della popolazione locale.
Nel romanzo di Alessandro Manzoni (ambientato nella prima metà del Seicento e spesso ricordato solo per la vicenda amorosa di Renzo e Lucia) convergono storie e personaggi reali insieme a storie e personaggi inventati, spesso in modo iconico, per rappresentare la realtà umana e sociale dell’epoca. Tra i personaggi realmente vissuti Manzoni ricorda Ludovico Settala, professore di medicina e protofisico, che, «per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone […] era oggetto di insulti ed aggressioni» ed accusato «di essere lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici» (Cap. XXXI, par. 285).
Tra coloro che si opponevano «alla opinione del contagio» (par. 300) si annoveravano anche numerosi medici, che ben presto, costretti dalla realtà dei fatti ad ammettere l’esistenza del morbo, cercarono di ridurne l’impatto emotivo tra la popolazione (con il sottaciuto favore di chi doveva gestire il problema), attribuendo «un nome generico alla nuova malattia [….] (definendola) febbri maligne o febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole che pure faceva gran danno; perché [….] riusciva a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male si attaccava per mezzo del contatto» (par. 305).
Quanto ai Magistrati, che all’epoca rappresentavano l’autorità amministrativa e non solo giurisdizionale, «come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più di orecchio agli avvisi […] alle proposte della Sanità… (come quelle della necessità di attivare) quarantene» (par. 310). Con l’estensione del morbo, che progressivamente invase buona parte dell’Italia settentrionale e centrale, anche tra la gente comune, che non poteva più negarne l’esistenza, aumentarono i soggetti «tanto più disposti a trovarci un’altra causa, a menar buona qualunque ne venisse in campo» (par. 410, sempre del medesimo capitolo), finendo per individuare negli «untori» (come venivano in realtà denominati gli operai del Duomo che usavano un contrassegno oleoso sull’assito e sulle panche per dividere i posti in chiesa tra maschi e femmine), la responsabilità della diffusione della peste. Della cui infondatezza fece marginalmente le spese anche il povero Renzo Tramaglino, scambiato per uno di essi solo per aver bussato al portone sbagliato.
Quando infine i morti e il riempimento del lazzaretto furono tali da rendere a tutti innegabile la realtà della peste, si trovò ancora chi continuò a cercarne una ragione “scientifica”. Tra questi, per mere esigenze romanzesche, il Manzoni individua nella figura evanescente dello stesso Don Ferrante (personaggio di fantasia come quello della consorte, Donna Prassede) il (uno tra…) protagonista del cambiamento di rotta degli scienziati, che dovendo arrendersi all’evidenza, e non potendo più negare il morbo, cominciarono «ad indagarne le cause» (Cap. XXXVII, par. 405), aggiungendo confusione a confusione, incertezza ad incertezza.
Don Ferrante elaborò così una sua personale teoria, per cui la ragione della pestilenza andava cercata in cause “astronomiche” e non sanitarie. E precisamente (ipse dixit) nella «fatale congiunzione tra Saturno e Giove» (Cap. XXXVII, par. 420). Il Manzoni fa concludere la vicenda umana del nostro personaggio senza “onore delle armi” ed in modo bonariamente burlesco, liquidando in tre righe la sua parabola di scienziato “fai da te”: «His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli si attaccò, andò a letto a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle……»” (par. 435).
La storia, si sa, si ripete sempre uguale a sé stessa. Cambiano i suonatori, come si usa dire, ma non la musica. Dalla vicenda della peste del Seicento, così magistralmente descritta dal Manzoni nell’Ottocento, abbiamo imparato (e forse anche un po’ dimenticato) che la via giusta per affrontare questi fenomeni, eccezionali ma non nuovi per l’umanità, serve una comunicazione scientifica onesta, corretta e completa, ma occorre soprattutto accettare il fatto che scienza e medicina, anche se nel tempo molto evolute, non sono infallibili, e non fanno miracoli.
E d’altra parte occorre ammettere che le stesse migliorano la nostra vita, senza garantirci l’immortalità ma contribuendo ad alleviare i mali, ed evitando spesso peggiori e più gravi conseguenze. Ora come allora. Oggi come ieri.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow