Nelle ultime ventiquattro ore, tra chi non ha mai trovato un lavoro con un curriculum e chi invece invita il ministro Poletti a sbucciarsi le ginocchia nei campetti di qualche periferia, in pochi non hanno ceduto alla tentazione di intervenire nel dibattito. Eppure, tra tutto questo clamore, è passata inosservata uno dei momenti più bassi della storia universale dei contatti lavorativi: il curriculum europeo, una roba grottesca, kafkiana, di quelle che non stonerebbero affatto come protagoniste in qualche striscia di Zerocalcare.
Per chi è nato negli ultimi vent’anni del Novecento, il solo sentirlo nominare, questo dannato curriculum europeo, provoca crisi di nervi, riso isterico e, quando va bene, una risata amara pensando a tutto il tempo — mediamente una giornata intera di lavoro — che ci hanno fatto perdere su una cosa completamente inutile.
Era il 2002 quando la Commissione Europea, probabilmente in una delle sue sedute meno frequentate di sempre, approvò la proposta di uniformare la compilazione del curriculum in tutta Europa, scegliendo un modello denominato poi Europass. All’epoca il ministro del Lavoro non era Poletti, era Roberto Maroni e quel modello fu preso alla lettera e spacciato non solo come obbligatorio, ma proprio come propedeutico alla selezione del personale di qualsiasi azienda, per qualsiasi posto, dalla babysitter al primario di chirurgia maxilofacciale…
Continua a leggere su linkiesta.it