Il dialogo mediatico tra Bonomi e Furlan: prove tecniche di innovazione nelle relazioni industriali

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Bollettino ADAPT 6 luglio 2020, n. 27

 

Il dialogo a distanza tra Carlo Bonomi Annamaria Furlan sulle pagine del Messaggero è un chiaro esempio di quanto la comunicazione pubblica costituisca una dimensione naturale per il metodo delle relazioni industriali moderne. Nelle due lettere apparse sul quotidiano Romano i leader di Confindustria e Cisl hanno tentato di fornire le chiavi di lettura non solo della crisi in corso, ma anche delle dinamiche della trasformazione del lavoro che vi preesistevano. Offrirne un’interpretazione convincente rappresenta l’impegno comunicativo probabilmente più difficile in un momento di esposizione mediatica fisiologica.

 

La lettera-manifesto di Bonomi ribadisce quanto già espresso nella sua prefazione al libro Italia 2030, anticipata il giorno precedente l’intervento agli Stati Generali: “Nessuna decisione politica sul mondo del lavoro, delle imprese e sulla miglior allocazione delle risorse italiane ed europee disponibili, potrà sprigionare davvero tutto il suo potenziale di crescita, se non passa attraverso un confronto concreto e di contenuto tra imprese, sindacato e terzo settore”. Affermazione di quel metodo che dovrebbe presiedere al risultato più volte auspicato da Annamaria Furlan di un “patto” tra le forze sociali e produttive del Paese.

 

Siamo così in presenza di una delle regole da manuale della comunicazione politica contemporanea: un frame (una definizione, un concetto chiave) deve essere semplice e ripetuto perché si affermi tra gli schemi interpretativi di chi legge e ascolta.  L’altro lato della medaglia vuol che la frequenza con la quale si invoca una risorsa intangibile, come quella della “inclusività” più volte ricordata sia da Bonomi sia da Furlan, sia inversamente proporzionale alla sua disponibilità. Ma questo non basta se dietro ai ripetuti appelli alla “responsabilità di ognuno” per superare la crisi, si profila una incerta stagione contrattuale già aperta, con ormai 8 dipendenti su 10  in attesa di rinnovo (stime Istat). Tra le negoziazioni aperte due di peso come quella dei metalmeccanici e quella dei tessili, segnate da una notevole divergenza tra le richieste avanzate dai sindacati e le posizioni delle imprese.

 

Non a caso la risposta di Furlan all’appello di Bonomi di ripensare i contenuti della contrattazione collettiva e superare il mercato del tempo di lavoro del Novecento è stata quella di iniziare da una verifica “sugli impegni reciproci assunti nei mesi scorsi nel Patto per la Fabbrica”, ossia la cornice dentro la quale si sta misurando la reale distanza tra le parti nei modi di intendere la funzione del contratto collettivo nazionale. Anche la Cgil concorda a livello di principio sul fatto che “occorra investire sul lavoro, spingere sulla produttività, sulla formazione […] ragionare sul regime orario” ma questo deve avvenire senza “mettere in discussione l’incremento economico del contratto nazionale”. Così Ivana Galli, segretaria confederale della Cgil. E la posizione della UIL, espressa dal neo-segretario Pierpaolo Bombardieri sabato durante la sua relazione di insediamento, è simile stessa. Più esplicito ancora è stato il segretario generale della confederazione di Corso Italia Maurizio Landini dicendo che “se Bonomi vuole mettere in discussione il contratto nazionale sarà scontro”.

 

È in questo clima che si inseriscono gli appelli di Bonomi e Furlan al superamento di “logiche di vecchi scambi e visioni ideologiche di antagonismo che appartengono al passato” e ad arginare derive violente (il riferimento è alle minacce ricevute nei giorni scorsi dal presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti e dal presidente di Confindustria Bergamo Stefano Scaglia).

 

Gli interventi di Bonomi e Furlan evidenziano come la vera posta in gioco nella comunicazione di chi fa rappresentanza oggi sia un’interpretazione comprensibile e convincente dei fenomeni di cambiamento del lavoro. E soprattutto della loro possibile gestione. Da questo punto di vista le parole di Bonomi e Furlan sono facilmente attaccabili da chi voglia leggere nelle proposte di superare “il vecchio meccanismo dello scambio tra salario e orario” e di stabilire “obiettivi incentivanti di produttività” non una lettura innovativa, ma al contrario un ritorno al cottimo e una cessione di diritti acquisiti da parte dei lavoratori. Una “via bassa” dunque, e tutto il contrario di un percorso di “innalzamento del capitale umano”.

 

Un modo affinché quella che vuole essere “una vera e propria ridefinizione del lavoro, guardando alle filiere e alle aziende” non sia oggetto di una disputa ideologica de facto è quello di discuterla nelle sue implicazioni concrete e misurabili. Ciò aiuterebbe a spiegare alcuni equivoci chiave da parte di chi tenta di descrivere il post-fordismo, evitando che le sue categorie interpretative finiscano per essere poi ricondotte, come nel caso del patto della fabbrica, agli schemi di lettura della società del Novecento industriale. Ma è evidente che a questo livello del confronto non sono ancora entrate in gioco quelle indispensabili figure tecniche e terze di raccordo in grado di tradurre la visione politica e le proposte di merito in precise previsioni normative e contrattuali coniugando le vecchie relazioni industriali con i nuovi modi di lavorare e fare imprese sul versante dell’apprendimento, delle competenze e della professionalità. Per esempio ripensando radicalmente i fondi interprofessionali e persino l’apprendistato che la storia ci consegna come strumento di innovazione e non solo di inserimento dei giovani in azienda (si veda a riguardo M. Colombo, L’apprendistato come paradigma dei processi di innovazione: la lezione del passato, in Bollettino speciale ADAPT n. 2/2019).

 

Il nodo di fondo resta quello della crescita della produttività, concetto che applicato al lavoro andrebbe nettamente distinto da quello di una semplice capacità produttiva oraria, che si addice perfettamente solo alle macchine, ma andrebbe descritto nei termini del valore aggiunto che il lavoro è in grado di apportare nella produzione. Concetto molto difficile da misurare concretamente, ma che costringe a distinguere professioni dove questi margini esistono e professioni e settori invece per le quali l’incentivazione non basta, ma si rendono necessarie l’innovazione e la ricerca. Di qui il secondo equivoco, che vuole che il superamento del vecchio scambio tra salario e orario sia da intendere come una rottamazione tout court del concetto di ora-lavoro, e quindi in realtà un pretesto per ridurre i salari. Servirebbe quindi in questo senso indicare esperienze concrete di contesti organizzativi nei quali le competenze siano state trainate verso l’alto trasformando in buone pratiche le enunciazioni di principio.

 

Una concretezza di cui c’è urgenza anche nel discorso pubblico che riguarda il tema, sempre connesso alle professioni, delle politiche attive, perno per la costruzione dei cosiddetti mercati del lavoro transizionali. Le relazioni industriali su questo terreno avrebbero molto da raccontare e da fare per ripensare lo scambio attraverso le leve della bilateralità e quindi attraverso sistemi formativi che non siano basati sulle professionalità del ‘900 industriale (si veda a riguardo L. Casano, Ripensare i Fondi Interprofessionali per la formazione continua: uno sguardo ai progetti di riforma francesi in Bollettino ADAPT n. 12/2018).

 

I manifesti per il futuro del lavoro potrebbero insomma essere accompagnati da testimonianze che evitino le loro interpretazioni in termini di programmi culturali astratti e ideologici, che con le stesse pinze dell’ideologia si lasciano trattare. Col risultato di favorire paradossalmente la difesa dello status quo e di conservare le condizioni di un mercato del lavoro insostenibile, dove oltre l’accanimento terapeutico di un trattamento di cassa integrazione o un assegno di disoccupazione resta il vuoto occupazionale.

 

Francesco Nespoli

ADAPT Research Fellow

@Franznespoli

 

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