Nel calendario parlamentare del prossimo anno sono già cerchiati in rosso due appuntamenti, due “patate bollenti” per i partiti. La prima è la legge elettorale che sarà discussa dopo la sentenza della Consulta – il 24 gennaio – e che sarà il fattore decisivo per determinare la data del voto e quindi il “destino” del 2017. La seconda è il referendum sul Jobs act: anche su questo dovrà esprimersi la Corte (l’11 gennaio) e pure questa decisione condizionerà la scadenza della legislatura perché – come ha detto il ministro Poletti – se si va alle urne si potrà rinviare un test popolare molto temuto da Governo e Pd.
Test che appare a maggior ragione a rischio dopo l’altra gaffe del ministro del Lavoro sui giovani, di cui dovrà riferire al Senato il 10 gennaio, data decisa ieri. «Conosco chi è andato via e sta bene dove sta, l’Italia non soffrirà a non averli più tra i piedi», questa è la frase “incriminata” di Poletti sui ragazzi che emigrano e mai parole così sciatte si sarebbero potute ascoltare in anni in cui il lavoro era il cuore della politica.
È da un po’, invece, che i governi trattano il dossier-welfare come fosse il Mattarellum o il Consultellum: una corsa alle regole senza un’analisi sociale e uno spessore culturale, un terreno arato solo dal punto di vista normativo. La sensazione è che negli ultimi anni, il lavoro sia diventato uno dei luoghi di applicazione del cosiddetto “vincolo esterno”, cioè della necessità di adeguarsi a uno standard legislativo europeo, a quei suggerimenti scritti nella lettera della Bce del 2011. Si può discutere se sia una linea teorica giusta o sbagliata – e per molti è giusta – ma questo ha trasformato una materia viva come il lavoro in un campo arido…
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