L’impostazione economica ispiratrice del Jobs Act ha segnato il passaggio dalle tutele “nel contratto” alle tutele “nel mercato” del lavoro, individuando nell’ “imprevisto” un fattore antieconomico per le imprese da ridurre, se non addirittura da eliminare (cfr. F. Seghezzi M. Tiraboschi, Al Jobs Act mancano l’anima e una visione del lavoro che cambia. Ecco perché rileggere oggi la Grande trasformazione di Polanyi). La traduzione normativa di tale impostazione è consistita nell’elaborazione dei «principi ispiratori e criteri direttivi» contenuti nella legge delega n. 183/2014, spiccatamente indirizzati al depotenziamento dell’intervento giudiziale. L’intervento della magistratura del lavoro è stato infatti interpretato quale duplice fattore di rischio – imprevedibile tanto in termini del merito della decisione, quanto in considerazione del suo “costo” economico – che non permetterebbe alle aziende di definire in via preventiva e, soprattutto, certa, le possibili implicazioni negative delle proprie scelte nella gestione dei rapporti di lavoro.
Della riportata esigenza dovrebbe essersi fatto carico anche il decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali attuativo del Jobs Act – il cui schema è stato presentato dal Governo il 20 febbraio scorso ed è ora vaglio delle Camere – il quale tuttavia, nell’intento di ridurre drasticamente il ricorso alla discrezionalità del giudizio, è parso incorrere in semplificazioni manichee. Infatti, il tentativo di alleggerimento del panorama legislativo pare non abbia debitamente valutato la complessità giuridica, sociale ed economica – sorvolando su quella tecnologica, demografica ed ambientale – necessaria per offrire gli strumenti giuridici che regolano i rapporti di lavoro.
Se ciò appare maggiormente evidente per alcune fattispecie negoziali (su tutte il lavoro parasubordinato, su cui vd. F. Pasquini, PROGETTARE I TEMPI MODERNI GUARDANDO POMPEI. A proposito della sorte del lavorare per progetti o a progetto), può essere nondimeno intravisto anche nell’art. 51, c. 5 del sopracitato schema di decreto, che stabilisce l’espresso divieto di ricorrere «a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito della esecuzione di appalti fatti salve specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto».
La norma positivizza un consolidato orientamento di prassi amministrativa – viceversa disatteso da una delle prime pronunce di merito (vd. la sentenza del Tribunale di Milano n. 318/2014, per un cui commento vd. V. Putrignano, Il lavoro accessorio tramite voucher: condizioni di legittimità e limiti di ammissibilità, in Arg. Dir. Lav., 3/2014, 811 ss. e D. Colombo, Appalti: legittimo l’utilizzo di voucher per lavoro accessorio, in Dir. prat. lav., 2015, 7, 435) – alla cui stregua le numerose modifiche al lavoro accessorio non ne hanno tuttavia scalfito la finalità di emersione e regolazione di fenomeni che, in mancanza di siffatto rimedio, resterebbero nel sommerso. In considerazione di ciò, quindi, non sussisterebbe «alcun dubbio in ordine alla perdurante esigenza che lo stesso non si presti a fenomeni di “destrutturazione” di altre tipologie contrattuali e a possibili fenomeni di “dumping” sociale nell’ambito degli appalti, a sfavore di imprese che ricorrono a contratti di lavoro più “stabili”» (circ. Min. lav. n. 4/2013: nello stesso senso anche circ. Inps n. 88/2009 e n. 17/2010). In buona sostanza, la preoccupazione esternata nel predetto orientamento di prassi mira ad evitare che il lavoro accessorio, previsto per favorire l’emersione di lavoro irregolare, venga impiegato per realizzare fenomeni elusivi della normativa lavoristica inderogabile e/o pratiche di concorrenza sleale.
Sul punto occorre considerare, da un lato, una certa evoluzione normativa volta a progressivamente sottrarre l’uso dei voucher ai requisiti di natura soggettiva ed oggettiva inizialmente stabiliti (cfr. D. Venturi, Lavoro accessorio e buoni lavoro, in M. Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato, Giuffré, 2013, 231 ss., nonché P. Rausei, Lavoro accessorio come strumento di lotta al sommerso, in Dir. prat. lav., 2/2015, 57 ss.) e, dall’altro, come l’art. 1, c. 7, lett. h), della l. n. 183/2014 abbia conferito al Governo la possibilità di estendere «il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi». Parrebbe quindi che il criterio direttivo contenuto nella legge delega favorisca l’impiego dei voucher sia pure circoscrivendolo ad attività discontinue ed occasionali. Di tale indicazione manca tuttavia traccia nell’art. 51 dello schema di decreto, che presenta un generico divieto all’uso del lavoro accessorio nell’esecuzione di appalti.
All’intuibile obiezione che il decreto delegato avrebbe ristretto l’ambito di utilizzo del lavoro accessorio in maniera non conforme al dettato della legge delega, sarebbe possibile replicare come proprio le «specifiche ipotesi» fatte salve dall’art. 51 del predetto schema di decreto rendano il divieto contenuto nella norma adattabile alle fattispecie meritevoli di un trattamento derogatorio.
Se così fosse, tuttavia, il rimedio indicato potrebbe rivelarsi peggiore del male temuto, posto che non possono essere sottovalutati i timori di permeabilità della disciplina di fonte secondaria alle pressioni di varia ispirazione lobbistica che la dottrina ha sollevato, ad esempio, nel caso di ricorso al lavoro accessorio per gli stewards negli stadi durante le partite di calcio, previsto dal decreto Ministero dell’Interno del 24 febbraio 2010.
Peraltro, non essendo state esplicitate le ragioni di politica legislativa per cui, al fine di evitare abusi, potrebbe essere opportuno restringere l’uso dei voucher nell’esecuzione degli appalti, appare particolarmente complesso individuare le fattispecie in cui, a fronte di un livello di rischio inferiore, potrebbe esserne viceversa consentito l’uso. Il tutto pare quindi, ancora una volta destinato alla discrezionalità amministrativa che, pur basandosi sul confronto con le parti sociali, potrebbe non avere la visione di sistema che è propria del legislatore.
Oltretutto, la scelta di affidare ad un decreto ministeriale l’indicazione di «specifiche ipotesi» di ammissione del lavoro accessorio nell’appalto lascerà comunque ampio spazio al giudice per valutare la legittimità dell’impiego dei voucher, rischiando quindi di generare un cortocircuito di sistema consistente proprio in quell’antieconomico “imprevisto” che la filosofia di fondo del Jobs Act vorrebbe al contrario eliminare.
Seppure in un’ottica di de jure condendo, sarebbe quindi più utile abbandonare la dicotomica impostazione del vietato ove non espressamente consentito, in favore dell’esplicitazione di un criterio che permetta di accertare in concreto il corretto impiego del lavoro accessorio negli appalti. In proposito, andrebbe valutato quanto suggerito da chi – valorizzando l’esigenza di evitare pratiche fraudolente che, pur nell’apparente conformità alle regole, potrebbero tradursi nell’elusione di norme imperative di legge – ha proposto un metodo che appare particolarmente efficace.
Tale impianto, infatti, avendo riguardo all’operazione complessivamente realizzata, proibisce l’utilizzo dei voucher ove ciò avvenga in frode alla legge, essendo, ad esempio, diretto ad abbassare drasticamente il costo del lavoro realizzando un atto di concorrenza sleale verso imprese che impiegano manodopera assunta con contratti di lavoro subordinato (cfr. G. Gamberini, Lavoro accessorio negli appalti: ammesso se non in frode alla legge, in Il giurista del lavoro n. 11/2014, 8 ss.).
Giovanna Carosielli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiovCarosielli