Il gender gap parte dalla soddisfazione sul lavoro: l’ultimo report JobPricing sul mercato occupazionale, le retribuzioni e le differenze di genere in Italia

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Bollettino ADAPT 20 febbraio 2023, n. 7
 
L’Osservatorio JobPricing, insieme a LHH Recruitment Solutions e a IDEM | Mind The Gap ha pubblicato per l’ottavo anno di fila un documento per promuovere e contribuire al dibattito sulla parità di genere in ambito lavorativo e, in particolare, sul gender pay gap. Il report analizza le disparità di genere nel mercato del lavoro, concentrandosi su quelle che sono le cause delle disuguaglianze, e quindi andando alla ricerca delle motivazioni per cui gli uomini e le donne sono vittime di comportamenti diversificati, guardando poi al gender pay gap e, ad ultimo, analizzando la soddisfazione delle lavoratrici e dei lavoratori rispetto al mercato del lavoro e al pacchetto retributivo, ma anche vagliando gli effetti che avrebbe l’abbattimento delle discriminazioni a livello micro e macroeconomico.

 

Sulla scia della Strategia UE per la parità di genere, dalla seconda parte del 2021, l’Italia ha definito una Strategia Nazionale per promuovere le Pari Opportunità e la Parità di Genere, i cui obiettivi sono stati descritti partendo da un’analisi comparatistica delle pratiche e delle leggi di altri paesi europei. A luglio 2021 è stata pubblicata dal Ministero per le Pari Opportunità un piano che identifica cinque priorità (i. il lavoro, ii. il reddito, iii. le competenze, iv. il tempo, v. il potere) e che definisce le linee guida per gli interventi da adottare, ma anche gli indicatori e i target che servono per valutare i principali aspetti del fenomeno della disparità di genere. Inoltre, fondamentale è anche ricordare che lo stesso Piano Nazionale Ripresa e Resilienza include ed insiste su provvedimenti che hanno l’obiettivo di ridurre i gap di genere attraverso impulsi economici, sanzionatori e premiali. I primi interventi concreti in questo senso sono la L. n. 162/2021, che apporta modifiche al codice ex d.lgs. 198/2006 e fissa disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo e il Dpcm n. 152/2022, il quale definisce i parametri per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese.
 
È interessante guardare ai dati che evidenziano la percezione che i lavoratori e le lavoratrici hanno sul proprio pacchetto retributivo: l’Osservatorio JobPricing, dall’indagine annuale sulla soddisfazione sul proprio pacchetto retributivo (Salary Satisfaction Report), hanno evidenziato che le donne sono in generale meno soddisfatte, con un gap di 0,6 punti. La dimensione che registra un gap maggiore (1,0 punti) è relativa alla meritocrazia nell’accesso a promozioni, bonus e/o aumenti retributivi nell’azienda. Per quanto riguarda la trasparenza nelle decisioni retributive, si registra un gap di 0,8 punti: le lavoratrici, infatti, manifestano una maggiore insoddisfazione riguardo la conoscenza delle procedure e dei criteri aziendali per il riconoscimento di meriti. L’84% delle intervistate pensa che un collega maschio abbia più possibilità di essere promosso e, in quest’ultimo caso, che agli uomini vengano offerti incrementi retributivi più alti. Ancora più interessante è guardare alle motivazioni che uomini e donne considerano quando valutano un posto di lavoro: la differenza più importante la si rileva nella flessibilità oraria, subito seguita da quella inerente ai benefit e al welfare. Ancora, le lavoratrici prendono più in considerazione le relazioni interpersonali sul posto di lavoro rispetto a quanto non facciano i colleghi maschi. In generale, si osserva che le donne sarebbero disposte a rinunciare ad una parte della propria retribuzione, che già di per sé è inferiore, in favore di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavorativa.
 
Ma da dove sorge il gap di genere? E quali sono gli strumenti che abbiamo per contrastarlo? Anche queste sono domande che i ricercatori e le ricercatrici del documento si pongono e alle quali cercano di trovare risposta. Partendo dalla base, ossia dal livello di istruzione, si nota che il gap, in questo caso, è a sfavore degli uomini: infatti, nel 2021, il 14,8% dei ragazzi hanno abbandonato la scuola contro il 10,5% delle studentesse e, tra il 2004 e il 2020, c’è stata una diminuzione della percentuale degli uomini che hanno ottenuto il livello accademico più alto, mentre aumenta il numero dei maschi che conseguono titoli inferiori. Nonostante questi dati sembrerebbero favorire un futuro più brillante per le donne che per gli uomini, rilevante in questo quadro è anche il percorso di studi che viene scelto. A tal proposito persiste un tradizionale stereotipo che vede le donne con meno capacità analitiche e logiche; queste, infatti, continuano ad autoescludersi dai c.d. percorsi STEM, nonostante l’ambito lavorativo di riferimento sia in perenne crescita ed il mercato del lavoro richieda sempre più competenze digitali e tecnologiche. Questo è uno dei fattori che potenzialmente incrementerà la disoccupazione femminile e il gender pay gap.
 
Un altro fenomeno connesso all’istruzione da tenere in considerazione è quello della sovra istruzione, fenomeno che implica due questioni: i. la difficoltà per i soggetti coinvolti di sfruttare gli investimenti fatti per la propria istruzione, ii. la spesa pubblica utilizzata per la formazione di competenze non richieste dal mercato del lavoro. È esplicativo e paradossale che, nonostante i dati sul livello di formazione suddiviso per genere, e nonostante siano in maggioranza le donne ad aver conseguito i titoli accademici più alti, la maggior parte dei ruoli manageriali e di leadership siano ricoperti dagli uomini. In linea di massima, infatti, il differenziale salariale cresce in funzione del livello di istruzione raggiunto e tocca i valori più elevati tra gli uomini e le donne in possesso di un master di I o di II livello.
 
Questa suddivisione tradizionale del mercato del lavoro è causa e conseguenza dell’evidente segregazione orizzontale nel mercato del lavoro -le donne sono più rappresentate in settori manifatturieri tradizionalmente femminili (settore tessile, abbigliamento e farmaceutico) e i settori in cui si incontrano più donne manager sono l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza, il Marketing e la Comunicazione- e di quella verticale, nonostante sia dimostrato che le organizzazioni più inclusive e quelle nelle quali ci sono dirigenti donne siano più innovative, registrando migliori performance finanziarie. L’Italia è un paese che perde in innovazione, crescita e competitività. Analizzando la disparità di genere in termini economici, si nota che da un punto di vista macroeconomico riuscire a chiudere il divario di genere significa anche migliorare le condizioni di crescita economica e di produttività. Il miglioramento del gap potrebbe innalzare il tasso di occupazione tra il 2,1% e il 3,5% entro il 2050 e aumentare il PIL pro capite tra il 6,1% e il 9,6%. Lo stesso lo si può dire a livello microeconomico, dal momento che la chiusura del gap di genere porterebbe importanti vantaggi anche alle aziende ed alle organizzazioni. I quattro pilastri che sono stati identificati e che, se applicati, porterebbero ad un miglioramento sono i. la valorizzazione dei talenti, ii. il miglioramento della reputazione e della responsabilità dell’impresa, iii. La crescita dell’innovazione e delle performance dei team di lavoro, iv. il miglioramento delle performance finanziarie.
 
In termini generali, le donne che lavorano sono meno degli uomini, trovano meno lavoro o rinunciano prima a cercarne uno, il che comporta un’uscita più veloce dal mercato. I dati che guardano al tasso di inattività femminile ci dicono che, prima della pandemia, le donne che non avevano cercato lavoro nelle quattro settimane precedenti e che non avevano intenzione di trovare un’occupazione si attestavano al 43,5% contro il 25% degli uomini. I dati, però, ci dicono anche che il tasso di inattività delle donne è in evidente diminuzione, dimostrando che queste cercano di partecipare sempre di più al mercato del lavoro, mentre quello degli uomini è un dato costante che cresce solo nei momenti di crisi. Nonostante l’inattività femminile diluisca al crescere del titolo di studio, questa ha un valore minimo dell’11,5% e in tale dato sono comprese soprattutto le donne non laureate. A tal proposito è da tenere in considerazione il salario di riserva, ossia quel salario al di sopra del quale una persona decide di intraprendere una carriera e al di sotto del quale non le conviene lavorare. In questo scenario sono da inserire soprattutto le donne non laureate e soprattutto se hanno figli piccoli: vista l’esistenza evidente di un differenziale di genere, queste potrebbero non vedere alcuna opportunità nel lavoro poiché gran parte dello stipendio andrebbe poi dedicato per le spese per la cura dei bambini (asili nidi o baby-sitter) o delle persone non autosufficienti. Forse, strumenti come il salario minimo legale potrebbero consentire a molte più donne che non hanno voluto o che non hanno avuto la possibilità di intraprendere una carriera universitaria di inserirsi nel mondo del lavoro. In linea generale, le donne sono fortemente penalizzate dalla maternità, penalità che è stata stimata in –53% del salario pre-maternità trascorsi quindi anni da questa e in un salario settimanale inferiore del 6% rispetto alle lavoratrici che non hanno figli. Tale svantaggio non riguarda i padri.
 
I motivi che stanno alla base della discriminazione di genere in ambito di lavoro fanno in gran parte riferimento a fattori sistemico-culturali e, pertanto, sono molto difficili da estirpare. A livello globale, il gender gap è stato colmato al 68,1%, il che significa che a questo ritmo ci vorranno 132 anni per raggiungere la piena parità; invece, in Europa il divario dovrebbe essere riempito in 60 anni. È sempre più importante, quindi, cercare di attivare percorsi virtuosi a tutti i livelli della società civile, dalla famiglia al gruppo d’amici, fino alla scuola, alle università e nelle aziende. Sono proprio in quest’ultime che si realizzano molti degli effetti conseguenti alla discriminazione in ambito occupazione, ma sono proprio le aziende che, attraverso corsi di formazione e policies inclusive, possono creare il cambiamento.
 
Francesca Valente

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena

@valentefranc

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