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Il (giusto) posto del lavoro

«Sono inutile», «non ho più alcuna possibilità di realizzarmi», furono i refrain di un pranzo svoltosi un pomeriggio di più di vent’anni fa. Ad ascoltare i lamenti di un gruppo di studenti bocciati al test per l’ammissione alla facoltà di Medicina, c’era Pier Paolo Bellini, ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi del Molise, musicista e compositore. Dalle riflessioni su quelle parole è nato un corposo saggio, Il mio posto. Sociologia della realizzazione, pubblicato da Mondadori Education e presentato alla Camera lo scorso 13 luglio con il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. «Ho iniziato a cercare di capire quali concezioni del mondo potessero giustificare le affermazioni dei miei e di tanti altri studenti, da dove venissero e quali fossero le radici dei percorsi realizzativi odierni indagando un campione di circa 800 partecipanti ai test di Medicina».

Nel saggio c’è posto per una domanda importante: che cos’è il bene per l’uomo? E, in particolare, come comportarsi con i giovani, incapaci di affrontare gli ostacoli che si oppongono ai loro progetti e desideri?

Come si è arrivati a questa giovinezza imprigionata davanti alla soglia del lavoro?
Si è perso qualcosa di radicale nell’uomo.

Con l’avvento della modernità, e ancor più della post modernità, il rapporto tra gli individui e il sistema sociale ha subìto trasformazioni che hanno messo in discussione i fondamenti tradizionali: nel Medioevo un cavaliere era un cavaliere e un contadino era un contadino, per gli altri oltre che per se stessi; forse non era contento di essere tale ma era certo della sua traiettoria nella sua, felice o meno, realizzazione sociale.

Questa realizzazione, che coincide con la costruzione della propria identità – il proprio compito, il trovare “se stessi” nel mondo –, è data dall’interagire di tre prospettive diverse che nel libro chiamo “radici realizzative”: l’io che viene chiamato, l’io che fa, l’io che crede…

 

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Il (giusto) posto del lavoro
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