Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18: è questa la direzione giusta? L’immagine utilizzata da Matteo Renzi alla Leopolda non lascia molti margini di dubbio. Non possiamo pensare di contrastare la disoccupazione con ricette che andavano bene nel secolo scorso: sarebbe come usare un gettone del telefono per cercare di far funzionare i nostri iPhone. I tempi sono cambiati, dice insomma il nostro Presidente del Consiglio. Chi va tutelato, oggi, è il lavoratore, non più il singolo posto di lavoro. Per questo i vecchi arnesi di tutela forgiati nel Novecento industriale, anche quando frutto di importanti e gloriose conquiste sindacali, vanno rottamati facendo spazio a moderni servizi al lavoro ed efficienti programmi di ricollocazione e riqualificazione professionale.
Se quella delle politiche attive è la proposta centrale di quel Jobs Act su cui da mesi si stanno contrapponendo Governo e sindacati, merita allora particolare attenzione l’andamento di Garanzia Giovani. Un programma europeo di contrasto alla disoccupazione e inattività giovanile di cui ancora poco si parla anche perché non accende gli animi e non conquista gli onori delle piazze e delle prima pagine dei giornali come invece l’articolo 18. Eppure, per rimanere alla immagine proposta da Matteo Renzi, è proprio attraverso un primo bilancio di Garanzia Giovani che possiamo verificare, in modo pragmatico e senza gli occhiali della ideologia, se l’Italia sia oggi dotata del know how e di quelle infrastrutture tecnologiche che sono necessarie per far funzionare l’iPhone del lavoro.
La prima e forse unica buona notizia è che, in questo caso, le risorse non mancano. Parliamo di uno stanziamento cospicuo, pari a 1,5 miliardi di euro, di cui beneficiano tutte le regioni italiane. Eppure sono bastati pochi mesi di sperimentazione per comprendere che, in Italia, il vero problema per un vero cambiamento delle politiche del lavoro non è tanto quello delle risorse, che ci sono, ma è che non vengono spese e che non stanno producendo i risultati attesi. Emblematico è il caso delle Regioni del Mezzogiorno, dove si sono persi negli ultimi anni ben 800mila posti di lavoro, che sono le più in ritardo nella attuazione del programma.
Garanzia Giovani significa infatti, almeno sulla carta, la promessa di non lasciare solo chi, tra i nostri giovani, è senza una occupazione. Stato e Regioni si sono impegnati a garantire, entro quattro mesi dalla iscrizione al programma, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale. Tuttavia, poco meno di un quinto dei 250mila giovani italiani registrati al programma è stato convocato quantomeno per un colloquio preliminare. Ben pochi i posti di lavoro attivati. Sono invece ben 200mila i giovani messi in fila davanti a una porta, quella delle politiche attive del lavoro, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono e si tratterebbe solo di valutarne, in prima battuta, i percorsi formativi, le competenze e le professionalità. Per non parlare della stragrande maggioranza di quei 2 milioni e mezzo di giovani italiani senza lavoro e non iscritti ad alcun percorso formativo, i cosiddetti NEET, che davanti a quella porta non sono neppure passati. Speculare è la posizione di chi potrebbe davvero dare loro una speranza e una risposta concreta: le aziende che ancora oggi, a sei mesi dall’avvio del programma, non sono nelle condizioni di capire se i fondi a disposizione siano attivi o meno e quali le procedure burocratiche da affrontare.
Insomma, tanti convegni, moltissimi accordi programmatici, nuovi portali internet, qualche spot pubblicitario di scarsa efficacia e poco altro: per ora Garanzia Giovani non ha contribuito a riattivare l’occupazione giovanile e tanto meno a fluidificare i turbolenti percorsi di transizione dalla scuola al lavoro.
Sia chiaro. Il fallimento o il successo di uno strumento dalle grandissime potenzialità come Garanzia Giovani non lo si può misurare in termini di freddi numeri: quanti gli iscritti, quanti i colloqui, quante le offerte di lavoro concrete. Decisiva, piuttosto, sarà la capacità o meno delle nostre istituzioni e della politica di costruire, anche per il tramite di Garanzia Giovani, il nuovo sistema dell’incontro tra la domanda e offerta di lavoro avvicinando i percorsi formativi dei giovani e le loro competenze ai fabbisogni professionali delle imprese. Solo allora potremo dire se l’era del telefono a gettoni è davvero terminata o se invece è meglio tenersi stretti i vecchi arnesi perché, in una Italia in ginocchio e incapace di vincere la sfida della modernità, sono gli unici che ancora funzionano.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Avvenire, 31 ottobre 2014, con il titolo La prova del nuovo.
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Il Jobs Act alla prova di Garanzia Giovani