In principio era la rottamazione. Poi Renzi si accorse che quella parola “non comunica[va] speranza”. Al suo posto, a reggere tutto l’arco della comunicazione del turbo-riformismo renziano subentrava programmaticamente la parola “lavoro”, la “madre di tutte le battaglie”. Venerdì però la rottamazione si è ripresa un ruolo di primo piano nella narrazione del Presidente del Consiglio, ma a valenza rovesciata. Con l’approvazione definitiva del contratto a tuetele crescenti e la proposta di razionalizzazione degli altri contratti, si assiste a una rottamazione che la speranza la dà: è la rottamazione di un intero “sistema di diritto del lavoro”. Presupposizione semantica: si deve trattare di un diritto del lavoro vecchio, inadeguato, malfunzionante, antiquato.
Questa è solo una delle cornici interpretative utilizzate sin qui da Matteo Renzi nel corso del Jobs Act che si discostano significativamente dallo stato reale delle cose. Durante l’ultima conferenza stampa lenfasi del Presidente del Consiglio ha raggiunto però un livello quasi propagandistico.
Gia l’attribuzine al Jobs Act del valore di una “rivoluzione copernicana” era risultato goffamente altisonante. La nuova riforma del lavoro si colloca infatti nel pieno solco della precedente riforma Fornero e ne condivide gli obbiettivi: regolare il mercato secondo il paradigma del lavoro subordinato a tempo indeterminato flessibilizzando i rapporti in uscita e restringendo il campo d’azione per le forme cosiddette atipiche; il tutto supportato da un’estensione delle politiche passive.
Nemmeno la paternità del percorso che ha portato alla proclamata “abolizione” dell’articolo 18 è da attribuire a questo governo, che si è semplicemente trovato in condizioni storiche dove è stato possibile tornare ad agitare polemicamente l’argomento. Cosa che al tempo del governo Monti non era successa, forse per i toni più dimessi cui la gravità della crisi induceva.
Quella sull’articolo 18 era una battaglia che l’agenda della comunicazione politica renziana non aveva previsto, a cui il Premier ha dovuto suo malgrado prestarsi, a un certo punto. Una sorta di miccia accesa da Alfano nel “tranquillo” agosto, che si è rivelata inarrestabile, preannunciando un botto che Renzi ha dovuto ricondurre a favore del Governo. Sono stati recuperati i frame classici delle opposte ideologie, che non circolavano dal 2003: la paradossale “estensione delle tutele” vs. la veteromarxista “mercificazione del lavoro”. Per non essere travolto né dall’onda del sollevamento invocato da parte del sindacato, né dalle rivendicazioni delle “opposte opposizioni” politiche (Ncd e minoranza Pd) il contratto a tutele crescenti ha infine mantenuto la reintegra per i licenziamenti disciplinari illegittimi quando il fatto materiale non sussista. Il nuovo regime vale inoltre solo per i nuovi assunti, e non tanto per ragioni tecniche, quanto perché l’irritazione popolare di tutti i lavoratori dipendenti d’Italia sarebbe stata tale da mettere davvero a rischio la coesione sociale.
C’è poi quella declamazione del “giorno atteso da anni”, senza ben precisare né da chi né da quando, riferendosi venerdì alla presentazione del decreto attuativo sul riordino dei contratti. In realtà l’attesa per questo provvedimento nell’opinione pubblica, e quindi anche nel mondo dell’informazione, era largamente minore rispetto a quella per il natalizio decreto sul contratto a tutele crescenti. Generalmente l’interesse per il Jobs Act è andato progressivamente calando dopo il picco raggiunto a dicembre 2014, il giorno dopo l’approvazione definitiva al Senato. Basta un rapido sguardo alle linee di google trends per rendersene conto.
In effetti i giochi erano ormai fatti per il Governo, da quel momento non più vincolato ad alcun parere parlamentare. Se si ascoltano però le imprese di alcuni settori produttivi, come ha fatto ADAPT durante il convegno all’insegna dell’hastag #JobsBack svoltosi proprio venerdì scorso, si capisce che quel giorno era atteso sì, ma con timore. Timore che l’annunciato “disboscamento” delle fantomatiche quaranta forme contrattuali, andasse a reprimere delle tipologie vitali per alcuni segmenti produttivi. I call center ne sono l’esempio più comprensibile.
Nel consacrare l’attesissima giornata, Renzi alludeva al regime delineato con la Legge Biagi, ormai 11 anni fa. Di quella riforma il Governo attuale abroga ora il contratto di associazione in partecipazione, il cosiddetto jobs sharing e vincola la futura sopravvivenza delle collaborazioni coordinate continuative a progetto a specifici accordi sindacali.
Come sul fronte della flessibilità in uscita, anche su quella in entrata la riforma si preannuncia molto meno incisiva di quanto sia stato comunicato. Un classico, quasi una necessità della comunicazione politica, ma questa volta ai limiti della disinformazione.
Da un lato porre il discorso nei termini proposti da Renzi contribuisce a perpetuare un incomprensione perdurante dal 2003, ossia che la flessibilità (e la precarietà che parte di questa contiene) siano determinate prevalentemente dalle norme. Situazione di cui la Legge Biagi, con l’introduzione di diversi tipi di contratti parasubordinati, sarebbe stata responsabile.
Andrebbe ricordato però che la ratio di quella riforma era essenzialmente antifraudolenta, volta all’emersione dal lavoro nero di molti rapporti di lavoro già esistenti e privi di qualsiasi tutela e riconoscimento. Questo il senso di vincolare la collaborazioni coordinate continuative a un progetto definito e dichiarato, o di regolare lo scambio tra partecipazione agli utili e lavoro (associazione in partecipazione).
Raramente, diciamo pure mai, se ne sente parlare in questi termini. Certamente si tratta di forme contrattuali delle quali è stato fatto abuso, ma un abuso perseguibile e sanzionabile. Bisognerebbe farne memoria soprattutto in vista della nuova Agenzia Unica per le Ispezioni.
Sotto l’aspetto del lavoro sommerso, risulta sin troppo ottimistica la dichiarazione di Renzi secondo la quale, testualmente, ci sarà il passaggio di «200mila co.co.co e co.co.pro a contratti a tempo indeterminato». Non esiste alcun automatismo di questo tipo, e non si può sperare che i cittadini lo presuppongano. E’ invece plausibile che parte di questi rapporti di lavoro non vengano attratti tanto dall’orbita del nuovo contratto a tutele crescenti quanto da nuovo lavoro nero o falso autonomo, facendo della domande “lei ce l’ha una partita iva?” una discriminante sempre più ricorrente nei colloqui di lavoro.
Ora, che il nuovo contratto a tempo indeterminato sia conveniente è difficilmente discutibile. La domanda su cosa succederà quando finiranno gli sgravi contributivi previsti dalla Legge di stabilità, sarà da tenere presente. Nel frattempo l’orizzonte più felice sarebbe quello del superamento delle titubanze delle imprese nell’investimento a lungo termine nei giovani. Ma quello si chiama apprendistato. Nulla invece il Jobs Act dice rispetto ai tirocini extracurriculari, principale forma di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
E guardando proprio ai giovani, il dulcis in fundo della conferenza stampa di venerdì. Secondo i dati ufficiali più recenti ci sono 253400 ragazzi iscritti a Garanzia Giovani che sono ancora in attesa di essere presi in carico. Sono il 60% del totale. ADAPT lo ha spiegato direttamente anche a Jyrky Katainen. Renzi ha detto con tono perentorio che “nessuno sarà più lasciato solo”. Converrebbe chiedere a questi ragazzi cosa ne pensano.
Francesco Nespoli
ADAPT Research fellow
@franznespoli
Pubblicato anche in Linkiesta.it, 23 febbraio 2015
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La comunicazione del Jobs Act sembra quasi propaganda