La guerra delle parole continua, anche dopo la caduta dei muri, e c’è sempre chi persiste, malgrado tutto, a non poter vivere senza demonizzare qualcuno o qualcosa. E, mentre si parla tanto di partecipazione, di condivisione degli spazi (coworking) e dei mezzi di trasporto (carsharing), non si può accettare, in odio alla flessibilità del lavoro, travestito da ossequio alla lotta alla precarietà, una forma di contratto di lavoro di alto valore sociale come il lavoro condiviso (jobsharing).
Infatti, per stipulare un simile contratto di lavoro, bisogna essere ben consci della responsabilità che ci si assume, sia in rapporto con il datore di lavoro che in relazione all’altro soggetto del contratto; mentre, d’altro canto, un datore di lavoro si assume un bel rischio quando confida che l’obbligazione lavorativa sia comunque assolta da uno o da un altro lavoratore/lavoratrice, indifferentemente.
E una cosa del genere si può fare soltanto se c’è uno stretto, solido rapporto tra i due lavoratori; un rapporto basato sull’amicizia o sulla familiarità; un rapporto che, in un periodo come questo, in cui prevale la molecolarità, non può che essere importante e bello. Un rapporto che, certamente, non può essere forzato, come possono essere forzati certi part-time, in qualche caso. Un rapporto che, malgrado tutte le sbandierate solidarietà, non può essere capito e accettato da un sindacato ancora attardato nella mistica del conflitto.
Oltretutto, chi non vive soltanto di slogan e manifestazioni, sa bene che, malgrado la terminologia anglosassone – per l’ostinata, becera anglofilia che ci contraddistingue –, la condivisione del lavoro c’è sempre stata nelle famiglie contadine ed è continuata nelle prime, arcaiche forme di delocalizzazione produttiva, com’era il lavoro a domicilio.
Chi ha esperienza del lavoro vero, non avendo partecipato alla grande abbuffata dei pochi fortunati – loro felici pochi, ma senza aver mai combattuto nel giorno di S. Crispino –, sa che, spesso, se non sempre, a fianco di un lavoratore a domicilio regolarmente denunciato ci sono stati altri della famiglia, stretta o allargata, o del vicinato, che hanno contribuito all’esecuzione della commessa, in un modo o nell’altro; ovviamente qualcuno che non poteva o non voleva essere regolarmente denunciato. Mentre nel jobsharing era tutto regolare.
Purtroppo la maggior parte degli studiosi di diritto del lavoro conosce più il diritto che il lavoro e, cosa ancor più grave, tende a focalizzarsi maggiormente sulle patologie piuttosto che sulla fisiologia del lavoro che, per quanto sempre legato al biblico sudore della fronte, è ancora l’unico modo per dare ai poveri non soltanto reddito, ma anche dignità e piacere, anzi l’orgoglio del mestiere o della professione che faceva scrivere, sui manifesti funebri, “operaio FIAT” o “fabbro in S. Frediano”.
Tuttavia non c’è da essere tristi per la morte del povero, innocuo, jobsharing colpevole di innocenza, come ha scritto Tiraboschi, nella persistente demonizzazione dei frutti della riforma del lavoro “addebitabile” a Marco Biagi, perché lo stesso risultato pratico di jobsharing lo si potrà ottenere – pur con minori garanzie per il lavoratore – con due part-time muniti di adeguate clausole di elasticità. Alla faccia di quanti vogliono continuare a tenere ingabbiata la realtà mentre, magari, vogliono eliminare le gabbie degli zoo.
ADAPT Professional Fellow
@occamorazi