Il lavoro stagionale del DDL Lavoro: una “rivincita” dell’autonomia collettiva?

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Bollettino speciale ADAPT 18 ottobre 2024, n. 5
 
 L’articolo 11 del disegno di legge n.1532, rubricato “Norma di interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in materia di attività stagionali”, è stato introdotto dalla XI Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato), successivamente all’istanza emersa in sede di audizione di una rilevante organizzazione datoriale.
 
Il testo della disposizione recita come segue “1. L’articolo 21, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, si interpreta nel senso che rientrano nelle attività stagionali, oltre a quelle indicate dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, le attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria, ai sensi dell’articolo 51 del citato decreto legislativo n. 81 del 2015.”
 
Scopo della presente disposizione normativa sembrerebbe quello di ampliare la platea di quelle che oggi vengono qualificate, sulla base del diritto e della giurisprudenza esistenti, quali attività stagionali.
 
Andando a ritracciare il quadro normativo di riferimento in tema di contratto di lavoro stagionale, ad oggi punti di riferimento cardine sul piano nazionale per la definizione di ciò che è possibile considerare attività stagionale sono il d.P.R del 7 ottobre 1963 n.1525 ed i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015.
 
Con riferimento al d.P.R n.1525/1963, si tratta di un decreto attuativo della legge n. 230/1962 sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, il quale fornisce un’elencazione di tutta una serie di attività per le quali è consentita l’assunzione di personale con contratto di lavoro stagionale. Tale elencazione è stata a più riprese definita dalla Corte di Cassazione quale “tassativa, e non suscettibile pertanto di interpretazione analogica”.
 
Successivamente era stata prevista l’adozione di un decreto da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che andasse ad aggiornare una normativa non più attuale e a più riprese integrata e sostituita con ulteriori interventi normativi. Tuttavia la mai avvenuta adozione di tale provvedimento ha spinto il legislatore nel 2001 a mantenere il riferimento del d.P.R e al contempo prevedere con l’art. 5 comma 4 ter del d.lgs. n. 368 la possibilità, per i contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, di individuare ulteriori tipologie di attività stagionali. Questo assetto è stato mantenuto con l’adozione del Jobs Act nel 2015, fino ad arrivare ad oggi con la possibile adozione dell’articolo 11 del DDL lavoro. Scopo del legislatore con l’adozione dell’art. 11 sarebbe quello di conferire a livello legislativo la qualifica di attività stagionale a tutte quelle “attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa”., così come definite dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n.81 del 2015.
 
Tale definizione non appare nuova, quanto più ripresa da innumerevoli testi di contratti collettivi, tra i quali troviamo a titolo esemplificato il CCNL dell’industria meccanica ed anche l’Accordo provinciale del turismo di Bolzano, i quali però sono stati in tal senso vittima di una recente interpretazione restrittiva da parte della Corte di Cassazione.
 
Con l’ordinanza 4 aprile 2023 n.9243 i giudici di legittimità hanno evidenziato come per attività stagionale debba intendersi un attività “aggiuntiva rispetto a quella normalmente svolta ed implica un collegamento con l’attività lavorativa che vi corrisponde” e prosegue dicendo “Le fluttuazioni del mercato e gli incrementi di domanda che si presentino ricorrenti in determinati periodi dell’anno rientrano nella nozione diversa delle c.d. punte di stagionalità che vedono un incremento della normale attività lavorativa connessa a maggiori flussi.”.
 
Tale pronuncia degli Ermellini mira a ridimensionare l’eccessiva autonomia ed arbitrarietà di cui le parti sociali godono nella regolamentazione dell’istituto del lavoro stagionale all’interno dei contratti collettivi.
 
Grande attenzione e rilevanza sono date allo strumento del contratto di lavoro stagionale in quanto può passare in breve tempo dall’essere origine di flessibilità e crescita del mercato del lavoro, a fonte di precarietà.

Si tratta infatti di una particolare tipologia di contratto a termine, che proprio in ragione delle peculiarità delle attività per le quali può essere stipulato, non è sottoposto a tutta una serie di vincoli legali nei quali è invece costretto il contratto a termine, soprattutto successivamente all’adozione del cosiddetto Decreto dignità. (d.l. n. 87/2018, convertito in legge n. 96/2018).
 
Tra i vari vincoli dai quali è esentato il contratto di lavoro stagionale ritroviamo quello a cui fa riferimento l’art. 11 del DDL lavoro nel rimandare all’articolo 21 comma 2 del d.lgs. 81/2015, vale a dire l’istituto dello Stop & go. Secondo la normativa vigente è prevista la possibilità per i lavoratori stagionali di essere riassunti con un nuovo contratto a termine immediatamente dopo la scadenza del primo contratto a termine, senza dover attendere il decorrere del termine di 10/20 giorni e senza che il secondo contratto si trasformi in contratto a tempo indeterminato.
 
Scopo dell’articolo 11 del DDL è quello di estendere questa peculiarità a tutti i contratti a termine conclusi in ragione dell’aumento della produttività, che dunque il legislatore auspica a qualificare quali attività stagionali, e che invece la Corte di Cassazione, solo un anno e mezzo fa, ha esplicitamente e categoricamente definito quali “punte di stagionalità” escludendo tale tipologia di situazione dalla platea di ciò che giuridicamente ad oggi è identificabile come attività stagionale.
 
L’intervento normativo in corso di valutazione sembrerebbe voler porre rimedio alle strette tenaglie in cui è stato imbrigliato il contratto a termine con l’adozione del Decreto Dignità, il quale mirava ad offrire maggiori garanzie e stabilità ai lavoratori dipendenti, spesso vittima di un abuso dei contratti a termine. Tuttavia tale soluzione ha ingenerato un conseguente esponenziale ampliamento, da parte dei contratti collettivi, delle ipotesi in cui è possibile ricorrere al contratto stagionale, il quale però a differenza del normale contratto a termine pone il lavoratore in una posizione ancor più precaria, data l’assenza di alcuni dei vincoli sopra detti.
 
Secondo quanto evidenziato all’interno di un’anali condotta da ADAPT su un campione di 55 contratti collettivi (F. Alifano. F. Di Gioia, Riforma del lavoro a termine: una simulazione su 55 contratti collettivi di categoria, WP ADAPT, 2023, n. 8) il 34,5% dei contratti tenuti in conto offre solo una definizione generica di stagionalità , ed anche tra quelli che forniscono una definizione puntuale, ce ne sono vari che tra le attività stagionali fanno rientrare quelle punte di stagionalità di cui si è detto.
 
La proliferazione dei contratti stagionali nei termini stabiliti dall’autonomia collettiva è proprio ciò che ha condotto la Corte di Cassazione a pronunciarsi in maniera così restrittiva, ed è anche ciò che oggi impensierisce maggiormente le principali organizzazioni sindacali le quali si dicono preoccupate per uno strumento che ai loro occhi appare causa di precarietà, e che invece al legislatore sembra un’opportunità di flessibilità e crescita.
 
Tuttavia, si pone il dubbio che l’articolo 11 del DDL, debba fare i conti anche con la questione di conformità rispetto al diritto europeo, ed in particolare al testo della direttiva n. 1990/70/ CE. Obiettivo del legislatore europeo con l’adozione della presente direttiva era quello di offrire una regolamentazione del contratto a termine all’interno del mercato del lavoro europeo, che ne permettesse un utilizzo a seconda delle specificità proprie dei singoli Stati membri, ma evitandone, al contempo, un abuso.
 
Il testo della direttiva, nel fornire le indicazioni per la sua trasposizione nel diritto interno, lascia ampio spazio di manovra ai Paesi europei, prevedendo, alla clausola 5 dell’accordo quadro, la possibilità di ricorrere a diverse misure – indicate ai punti a), b) e c) – per prevenire degli abusi nel ricorso dei contratti a termine, tra cui figurano la previsione di ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo di suddetti contratti, oppure la previsione di una durata massima totale dei contratti a termine successivi, o ancora il numero totale dei rinnovi dei suddetti contratti. È noto che il contratto stagionale rientra a pieno titolo nella categoria dei contratti di lavoro a termine: di conseguenza è necessario che la normativa dello Stato membro debba fare i conti con i principi posti dalla direttiva.
 
In tale quadro, non è del tutto remota la possibilità che l’art. 11 del DDL possa porsi in contrasto con la direttiva n. 1999/70. Essendo difatti il contratto stagionale libero da qualsiasi vincolo per quanto riguarda numero e durata, l’unica misura tra quelle prospettate a livello europeo funzionale a limitarne l’utilizzo è proprio l’individuazione da parte del legislatore di ragioni obiettive che ne giustifichino il rinnovo. In passato la Corte di Giustizia si è a più riprese pronunciata sul che cosa debba intendersi per “ragioni obiettive” ed in particolare è emerso come non risulti legittima una previsione normativa che autorizzi il ricorso a questa tipologia contrattuale in maniera generica, ma al contrario, risulta necessario un collegamento col contenuto concreto dell’attività lavorativa considerata. A ciò si aggiunge il fatto che nella sentenza Angelidaki (Cause riunite da C-378/07 a C-380/07) la Corte dell’UE ha specificamente asserito che qualora le esigenze alle quali rispondono i contratti a termine abbiano carattere non provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, allora ciò si porrebbe in pieno contrasto con lo scopo della direttiva.
 
Viene dunque da chiedersi, visti gli appena citati precedenti, se quei generici aumenti di produttività a cui fa riferimento l’articolo 11 del DDL Lavoro siano da considerarsi esigenze durevoli e permanenti di determinati settori produttivi e come tali in contrasto col fine ultimo perseguito dalla normativa europea.

 

 Marta Migliorino

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

@martamigliorino

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