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Bollettino ADAPT 18 settembre 2023, n. 31
Sta facendo molto discutere la scelta del principale sindacato italiano (la Cgil) di licenziare lo storico portavoce, Massimo Gibelli. È certamente impossibile entrare nel merito di questa complessa vicenda e quindi nel gioco dei torti e delle ragioni, anche perché non conosciamo bene e con accurata precisione i fatti che hanno motivato la decisione del sindacato. Fatti e atti la cui legittimità giuridica spetterà ad un giudice stabilire (posto che è proprio Gibelli, in una pubblica lettera, ad aver annunciato l’avvio di una battaglia legale: M. Gibelli, La Cgil mi ha licenziato. Dopo 40 anni. Sfruttando anche il Jobs Act, in Huffingtonpost, 10 settembre 2023). Queste precisazioni sono funzionali a chiarire fin da subito – anche (e soprattutto) per il rispetto che si deve al lettore – che le brevi riflessioni che seguiranno non sono certamente finalizzate a sposare le ragioni di qualcuno. Piuttosto, è nostro interesse provare a chiarire perché in questa intricata vicenda il Jobs Act non c’entri probabilmente nulla (senza contare che, dopo i numerosi interventi della Corte Costituzionale, poco resta dello spirito di quella riforma).
La lettera scritta di proprio pugno da Massimo Gibelli e pubblicata sulla testata online Hiffingtonpost consegna al dibattito pubblico tre principali informazioni: a) il portavoce è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo e cioè non perché avesse commesso qualche errore ma in ragione di un fatto organizzativo a lui non imputabile, ovvero la soppressione della posizione di “Portavoce del Segretario Generale”; b) non è stato possibile, a detta della Cgil, poter riallocare Gibelli presso altri uffici sindacali per indisponibilità di posizioni aperte; c) infine, il sindacato avrebbe licenziato Gibelli grazie al Jobs Act, cioè grazie a quella normativa che il sindacato stesso aveva a lungo contestato perché a danno dei lavoratori e su cui intenderebbe ora promuovere un referendum abrogativo. Una sorta di “grido gentile” contro la presunta ipocrisia del sindacato, che con una mano protesterebbe per contrastare una norma ritenuta sbagliata e con l’altra la userebbe a proprio piacimento. Ad onor del vero, però, nella lunga lettera di Gibelli non v’è un rigo in cui l’ex portavoce accusi la Cgil di essersi avvantaggiata usando il Jobs Act per recedere dal contratto di lavoro. È una informazione che troviamo nel titolo e che forse è figlia di quella cattiva pratica di “riassumere” in una frase una vicenda così complessa, forse anche per qualche click in più. Oppure, volendo essere in buona fede, potremmo anche presumere che il ragionamento di Gibelli sia stato completamente travisato.
Gibelli, per la verità, si è limitato a riconoscere che “Il diritto del lavoro è materia complessa e mutevole, risultato del sovrapporsi di innumerevoli leggi e riforme. Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è previsto dall’articolo 3 della legge n. 604 del 1966, più volte modificato nel corso degli anni, in ultimo dalla riforma Fornero del 2012 e nel 2015 dal Jobs Act di Renzi. Leggi che furono fortemente contestate dal sindacato”. È in questo passaggio che forse è nato l’equivoco, perché né la riforma Fornero né il Jobs Act hanno intaccato i presupposti che consentono al datore di lavoro di recedere dal contratto per motivi organizzativi ed economici (il c.d. motivo oggettivo). Fin dal 1966, infatti, l’art. 3 della legge n. 604, che per la prima volta ha regolato il potere di recesso del datore di lavoro nel nostro ordinamento, non ha mai subito modifiche. Le riforme successive, semmai, hanno modificato i rimedi, cioè le sanzioni che il giudice potrebbe applicare nel caso in cui venga accertato che quei motivi economico-organizzativi non sussistano concretamente oppure che il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, non abbia tentato di riallocare il dipendente in altri uffici e posizioni lavorative (il c.d. repêchage). In altri termini, le riforme hanno ridotto le ipotesi in cui il lavoratore possa essere reintegrato e non come e quando licenziare, che è ben altra cosa. E qui arriviamo alle prime domande: come fa la Cgil ad “avvantaggiarsi” del Jobs Act se il processo non è ancora iniziato e non possiamo sapere le sorti che questo avrà? Quale sarebbe il vantaggio, ammesso che ci sia, in una fase in cui non è ancora subentrato un organo in grado di applicare la sanzione ammesso che il licenziamento sia da ritenersi illegittimo? A ciò deve essere aggiunto che è ancora dubbio che le sanzioni “ridisegnate” del Jobs Act possano essere applicate al caso di specie, giacché tale normativa, per espressa previsione della legge-delega n. 183/2014, si applicherebbe solo ai “nuovi assunti” (cioè il personale assunto dal 7 marzo 2015). E pare proprio che la quarantennale esperienza di Gibelli nel sindacato ci consenta di escludere che si possa trattare di una nuova assunzione.
Ma i dubbi non si fermano qui. Il sindacato, come è a molti noto, è giuridicamente parlando una “organizzazione di tendenza”, ovvero un ente che svolge attività – in questo caso di natura sindacale – senza fini di lucro ma ideologicamente orientata (art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108); aspetto questo che inevitabilmente si riflette anche sul legame fiduciario che alimenta il rapporto di lavoro con i dipendenti. Proprio per questa ragione, l’art. 4 della legge n. 108/1990 che aveva riformato per la prima volta l’art. 18 St. Lav. – e non il Jobs Act! – escludeva, a buona ragione, l’applicazione delle sanzioni dell’art. 18 nelle c.d. organizzazioni di tendenza (sindacati, partiti, movimenti religiosi) e ciò per un evidente motivo: il sindacato, come anche il partito politico, non è una qualunque impresa dove tra datore di lavoro e lavoratore si consuma uno scambio contrattuale tra retribuzione e tempo messo a disposizione per svolgere la prestazione. Nelle organizzazioni di tendenza, infatti, nello scambio contrattuale entra inevitabilmente anche la condivisione dei valori che l’organizzazione esprime; o quantomeno una posizione di neutralità rispetto ad essi per quelle mansioni che non ne richiedono la necessaria condivisione. Quindi, il regime sanzionatorio (cioè il rimedio) doveva essere necessariamente differenziato, lasciando alla organizzazione decidere se, in caso di licenziamento illegittimo, riassumere il lavoratore o erogargli una indennità, come prevede l’art. 8 della legge n. 604/1966. Scopo di questa differenziazione era evidentemente quello di impedire che le organizzazioni di tendenza fossero costrette a mantenere in servizio un dipendente che non condivideva, o addirittura che si trovava in contrasto, con la mission da esse perseguita.
Insomma, Matteo Renzi aveva ancora 15 anni e frequentava il liceo quando il legislatore decise di non apprestare le medesime tutele contro il licenziamento per i lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza. Anzi, se c’è una “cosa buona” che questo vituperato Jobs Act ha fatto, è proprio quella di aver eliminato questo dualismo di tutele tra lavoratori “ordinari” e lavoratori assunti dalle organizzazioni di tendenza. Testualmente, all’art. 9, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015 si legge che “ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” si applicano le medesime sanzioni che si applicano per tutti gli altri imprenditori. Sanzioni il cui importo ora non è più determinato in modo automatico in ragione dell’anzianità di servizio (che in questo caso sarebbe comunque elevata) ma è rimesso nelle mani del giudice, come ha stabilito la Corte Costituzionale. E allora non possiamo che convenire con Pietro Ichino quando qualche giorno fa su Twitter ha precisato che in questa vicenda il Jobs Act “non c’entra proprio niente. O meglio: se questo licenziamento fosse regolato dal Jobs Act Gibellini sarebbe più protetto”. Un vero paradosso, non trovate? Eppure è così. Infatti, laddove Gibelli riesca a dimostrare l’insussistenza delle ragioni che avrebbero indotto la Cgil a comunicare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo il sindacato potrebbe essere condannato “a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità” (art. 8 della legge n. 604/1966) che però nel caso di specie non può superare le 14 mensilità. Diversamente, la tutela indennitaria massima prevista dal Jobs Act ammonta a 36 mensilità; sostanzialmente più del doppio di quella che potrebbe essere corrisposta all’ex portavoce in caso di vittoria processuale.
C’è, infine, un ultimo punto che merita di essere necessariamente toccato. In una organizzazione così imponente, il portavoce è certamente una figura da spoils system, che deve avere un particolare legame fiduciario con il segretario generale, che va oltre una ordinaria relazione contrattuale. Il che impone, a volte, anche valutazioni che vanno oltre un rapporto contrattuale di lavoro. Può darsi che Maurizio Landini, che da pochi anni è a capo di questo importante sindacato, abbia intrapreso legittimamente strade nuove e diverse. Per contro, però, l’art. 2103 cod. civ., anch’esso modificato durante la stagione di riforma inaugurata dal Jobs Act, in alcuni casi consente, diversamente dal passato, di adibire a mansioni inferiori il personale. Tra questi, vi è anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro decida di modificare “assetti organizzativi aziendali” (in questo caso, di un ente no-profit) che incidano “sulla posizione del lavoratore”. Ed è tutta qui che forse si giocherà la legittimità del recesso, e cioè se la Cgil abbia fatto una rigorosa verifica per evitare che il recesso per ragioni organizzative potesse essere l’unica alternativa praticabile, anche a costo di demansionare Gibelli.
Tuttavia, al netto delle questioni giuridiche sottese a questo caso, che spetteranno al giudice del lavoro valutare, questa vicenda però, come ha segnalato Michele Tiraboschi su Twitter, mette in luce almeno due dati di fatto di interesse generale e cioè da un lato il fatto “che ci piaccia o no (soprattutto a noi giuristi) un licenziamento difficilmente può essere inquadrato in termini oggettivi o, più semplicemente, economico/professionali perché, oltre all’elenco sempre opinabile dei torti e delle ragioni, solleva questioni imponderabili che toccano e colpiscono l’intimo delle persone”; dall’altro, che “i gravi problemi che attraversa il mondo del lavoro, soprattutto nella nostra società della comunicazione, sono sempre più di non facile soluzione anche per l’eccesso di retorica e di strumentalizzazioni con cui vengono impostate e di questo nessuno è esente da colpe”.
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia