Di giovani e lavoro parliamo ormai con toni troppo pessimistici. Eppure, se si osserva bene, non mancano storie positive. Storie che raccontano un’Italia diversa, che ci presentano ragazzi ancora disposti a faticare pur di trovare la propria strada.
Una di queste è la storia di Marco. Ventiquattro anni. Portamento elegante. Gilet e baffo da nobile anglosassone. Dopo il Liceo artistico, con un briciolo di ambizione e molto estro, si è presentato a una sartoria di Varese chiedendo di essere preso come apprendista e così è accaduto.
Non si tratta però solo di una fortuita assunzione, è invece l’occasione di un incontro molto importante, che l’ha condotto, così giovane, a diventare in poco tempo un artigiano appassionato e intraprendente.
Mentre cuce e muove rapido le mani su punti e pieghe, mantiene nei gesti, e nel pensiero, il ricordo del suo grande maestro: Benito, il caposarto da poco scomparso in seguito ad una malattia. È proprio lui che lo ha accolto, insegnandogli giorno per giorno il mestiere a cui lui stesso aveva dedicato tutta la vita fin da bambino, prima cioè di emigrare per 30 anni in Argentina, per poi ritornare in patria richiamato dalla professionalità della sua terra.
“Benito aveva un carattere severissimo, ma sono un karateka, e i maestri seri e rigidi mi hanno sempre mosso un grande senso di rispetto e serenità. Solo con il tempo ho pensato che, forse, quel suo fare brusco era dovuto alla grande attenzione con cui seguiva la mia crescita professionale. In tre anni di apprendistato mi avrà detto bravo due volte, perché, mi spiegava, lavorare bene era, innanzitutto, il mio dovere”.
Marco ha apprezzato la dedizione del suo maestro, soprattutto perché preferiva non dirgli mai come fare, ma glielo mostrava direttamente, ripetendogli che era proprio dell’artigiano impegnarsi sempre più a fondo per ottenere ogni volta un prodotto di maggiore qualità. Non c’era in Benito nessuna gelosia per i “segreti del mestiere”, nessuna remora ad insegnare ma anzi una pazienza “infinita”, forse data dalla consapevolezza che la sua arte sarebbe sopravvissuta solo nelle mani di quel ragazzo.
Progressivamente, infatti, le responsabilità affidate a Marco sono aumentate, tanto che, dopo tre anni dal suo arrivo in sartoria, Benito gli aveva lasciato la gestione della produzione delle giacche e anche la formazione di un nuovo apprendista. Lui stesso ora poteva insegnare quello che aveva imparato fino a quel momento.
“Essere un maestro non è semplice: richiede molta umiltà, comprensione e pazienza e Benito possedeva, a suo modo, ognuna di queste qualità. Mi ha dato la possibilità di appassionarmi ad un mestiere, di scoprire che mi piaceva davvero fare il sarto e soprattutto mi ha insegnato ad accettare gli inevitabili errori ed a puntare sempre a migliorarmi. Penso che questo sia il vero senso dell’artigianato”.
Tra un punto e l’altro, la conclusione è ancora questa: L’Italia ha bisogno di maestri, di uomini “veri” capaci di mettere da parte il proprio orgoglio e di guardare la generazione a cui hanno dato vita, senza pregiudizi e senza rimorsi, ma rimboccandosi le maniche e mostrando loro come affrontare l’“oggi”.
Laureanda in Lettere moderne, Università degli Studi di Milano
@claudiafloreani