Ho letto e apprezzato il paper CEPS sul ritorno economico degli investimenti negli studi universitari. Questo ha generato un dibattito in parte causato da incomprensioni e letture superficiali dell’elaborato. Infatti paradossalmente potrebbe essere perfino interpretato come un incoraggiamento ad iscriversi a facoltà umanistiche proprio perché, come dimostra, hanno costi inferiori. Ma non è questo il luogo per difendere una corretta interpretazione del paper, come peraltro ha già fatto la stessa Ilaria Maselli, una delle autrici, in più occasioni nell’ultima settimana. Il punto è la grande discussione che, con una durata nettamente superiore al ciclo di vita delle polemiche agostane, sta proseguendo ormai da giorni sull’utilità o meno di iscriversi ad una facoltà umanistica se si analizzano i benefici futuri.
Lo dico subito: sono colpevole, ho studiato filosofia. Ossia una scelta che, secondo molti, dovrei rimpiangere biasimando i sacrifici dei miei genitori che oltre a pagarmi le tasse universitarie hanno sostenuto anche le spese di uno studente fuori sede. Non voglio scendere lancia in resta nella difesa della categoria (che peraltro non spicca nel dibattito contemporaneo) dei filosofi, anche perché penso che pochi oggi intraprendano questo percorso aspirando alla carriera peripatetica, semmai qualcuno all’insegnamento. Non voglio neanche fare l’elenco che spesso si sente sui vantaggi di studi storici e filosofici in un mondo dove domina il marginalismo, l’analisi decontestualizzata e l’assenza di dimensione temporale dei fenomeni economici e politici e neanche ricordare le brillanti carriere di filosofi in grandi imprese.
Racconto solo la mia esperienza, che credo possa aiutare più delle discussioni infinite in cui ciascuno, giustamente, può portare innumerevoli dati a favore o contro. Faccio il ricercatore universitario, una specie di disoccupato direte voi. In realtà no. Non studio la fenomenologia o il sesso degli angeli, al contrario di quanto si crede di chi ha una formazione filosofica. Mi occupo, con tutti i limiti che mi caratterizzano, di mercato del lavoro, delle sue dinamiche socio-politiche e della sua evoluzione. In questo senso nel passaggio da materie umanistiche alle scienze sociali avrei intrapreso il miglior mix di costi e rendimenti secondo il paper citato. Insieme al centro di ricerca in cui lavoro, ADAPT, incontro imprese, sindacati, associazioni datoriali per attività di ricerca, progettazione e consulenza. Cerco di partecipare al dibattito italiano sulla modernizzazione del mercato del lavoro a partire dalle più interessanti esperienze straniere che sempre ignoriamo. La mia è certamente una esperienza particolare, non prevista all’inizio e, qualcuno accuserà, non replicabile seguendo percorsi canonici.
Dico tutto questo per autoelogio? Tutt’altro. Sono convinto che la mia formazione sia stata centrale per poter fare quello che faccio oggi, e non tornerei indietro. La capacità di sviluppare una visione di insieme che vada oltre i dettagli normativi (pur sacrosanti) e settoriali analisi econometriche si impara anche studiando i grandi sistemi filosofici. Cogliere un disegno che comprenda poi i singoli aspetti e allo stesso tempo inquadrare il problemi all’interno della sua evoluzione storica è per me una delle grandi mancanze del dibattito contemporaneo. Essere un po’ meno schiavi dei numeri, delle statistiche nude e crude ma interpretarle, in modo rigoroso sia chiaro, oggi è più importante che mai. Tecnica senza significato, legge senza giustizia, ordine senza bellezza sono sterili. Questo è possibile solo studiando materie umanistiche? Non credo, ma è certo che sono un grande aiuto, fosse solo per porsi domande che un certo mondo scientifico vuole censurare.
A ciò si aggiunge un dato importante. Oggi le carriere lavorative sono sempre più influenzate da una formazione continua on the job e per questo le scelte universitarie sono sì determinanti ma spesso si rivelano un punto di partenza per percorsi più lunghi, complessi e non standard. La traiettoria della carriera non è più una linea retta. Prova ne è il fatto che sono sempre più le imprese che non riescono a trovare tra i fuoriusciti da percorsi convenzionali le figure professionali che cercano. Per questo a volte le basi acquisite anche in percorsi umanistici possono essere spese (e perché no monetizzate) in carriere in cui queste sembravano inutili ma in cui si rivelano fondamentali. Creatività e innovazione non sono solo frutto di studi tecnici, ma sempre di più necessitano di una complementarietà tra discipline che si rivela la chiave di volta di tante dei maggiori successi, anche imprenditoriali di questo inizio di millennio.
La questione è quindi più complessa. Il dibattito di questi giorni ha rispolverato tutta una serie di dualismi, tra teoria e pratica, tra scientifico e umanistico, tra etica ed efficienza che, se mai sono stati veri, oggi sono superati dalla realtà del mercato del lavoro e dall’esperienza di molti nuovi lavori sempre più diffusi. Difficile ridurre tutto a una formula, soprattutto se questa rischia di tarpare le ali a percorsi nuovi e originali (che sono altra cosa dai numerosi corsi universitari inutili oggi esistenti) da cui spesso nascono quelle figure di cui il mercato del lavoro ha bisogno e che non riesce a trovare in quelli tradizionali.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez
* Pubblicato anche in Linkiesta, 19 agosto 2015.