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Nel reddito di cittadinanza, ipotizzato dal contratto tra i partiti della maggioranza parlamentare ed ora dal governo nell’ambito della manovra che si avvale della legge di bilancio, convivono due istituti distinti. La necessità di una loro separazione corrisponde alle due ben diverse tipologie di bisogno che si vogliono soddisfare. Da un lato, quello indotto da uno stato di povertà assoluta che si accompagna spesso con una condizione di degrado sociale o di obbligo di cura per le quali il lavoro non rappresenta, quantomeno nella prima fase di intervento, la possibile o sola soluzione. Dall’altro, quello determinato da uno stato di disoccupazione involontaria per il quale il lavoro costituisce invece la concreta risposta cui devono corrispondere responsabili comportamenti della persona interessata.
Nel primo caso la stessa individuazione della condizione di povertà non dovrebbe essere affidata ad una algida “prova dei mezzi” realizzata a tavolino da una burocrazia centrale e tantomeno l’antidoto può consistere sempre in un assegno postale. Solo in prossimità è ragionevolmente possibile comprendere uno stato di bisogno che è frequentemente indotto non solo dalla privazione di reddito ma soprattutto da una condizione di solitudine. Così come una analoga situazione reddituale merita una diversa attenzione se si colloca in un contesto di solidarietà familiare o comunitaria. Queste considerazioni conducono a riconoscere il ruolo necessario dei comuni che possono operare direttamente o attraverso il soccorso sussidiario di opere ed associazioni non profittevoli con soluzioni tarate sui singoli casi. Talora il sussidio monetario è infatti pericoloso perché può alimentare una dipendenza in presenza della quale appare più idonea la erogazione di beni di prima necessità o il pagamento di servizi essenziali.
In ogni caso uno stato di privazione e di degrado invoca innanzitutto quel calore relazionale che solo attività di assistenza prossima, meglio se sussidiarie e volontarie, possono garantire. È evidente che in questo caso non possiamo parlare di misura massima dell’intervento e di condizionalità rigidamente definite dalla legge perché ogni valutazione al riguardo deve essere rimessa a coloro che hanno “preso in carico” la persona o il nucleo familiare.
Di tutt’altro tenore è invece l’intervento in favore dei disoccupati che si compone di una parte passiva, un reddito a tempo, e di una parte attiva consistente nel coinvolgimento in percorsi formativi dedicati alla occupabilità. Abbiamo infatti più volte constatato come risulti insufficiente il mero incontro tra domanda e offerta se non accompagnato da un’azione mirata in termini di adeguamento delle abilità e delle competenze. Azione che si realizza con più efficacia se si colloca in un contesto territoriale ove le opportunità offerte dalle reti tra imprese, strutture educative o formative e servizi pubblici o privati all’impiego agiscono continuamente, e quindi con caratteri preventivi, in favore della occupabilità. La condizionalità qui è implicita e dovrebbe riguardare già la prima proposta “congrua” il cui rifiuto è verificabile se si alza il livello delle opportunità formative e si incentivano i servizi con i voucher a disposizione dei disoccupati secondo il modello della Lombardia.
Per tutti sarebbe comunque necessario lo sviluppo del “casellario previdenziale” fino a realizzare quel fascicolo elettronico della vita attiva da tempo ipotizzato e che dovrebbe comprendere, oltre al conto corrente contributivo e ai periodi di lavoro, anche i percorsi di apprendimento e la percezione di sussidi e servizi nelle più frequenti fasi di transizione. La tecnologia è bene sia unitaria e interoperabile per cui può essere gestita da remoto ma l’aiuto concreto presuppone l’incontro diretto degli sguardi.
Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi