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L’ipotesi di un moderato ripristino della cassa integrazione “per cessazione di attività” ha riproposto la vecchia contrapposizione tra le correnti giacobine dei liberal e quelle pragmatiche dei popolari di destra e di sinistra.
I primi, appassionati al rapporto diretto tra l’individuo e lo Stato, hanno potuto fare leva nella loro critica agli ammortizzatori sociali sugli obiettivi eccessi che si sono prodotti soprattutto per opportunismi politico-sindacali di carattere locale.
I secondi, fiduciosi nei corpi intermedi, hanno rivendicato il merito non solo del sostegno al reddito di persone altrimenti condannate alla povertà ma anche della sopravvivenza di imprese grazie alla conservazione nel tempo di crisi del loro portafoglio umano. Non dimentichiamo che alla base dell’impiego delle varie forme di cassa sono sempre stati accordi tra le parti e che le risorse, a parte la stagione degli interventi “in deroga”, sono state per lo più a carico della gestione presso l’INPS finanziata con i prelievi sul salario nei soli settori beneficiari.
Non meno divisive sono state poi le politiche attive. I liberal hanno sostenuto che si sarebbero prodotte solo costringendo i lavoratori alla separazione dall’impresa e i pragmatici ne hanno invece sempre preteso la preventiva operatività per far abbandonare la “sicurezza” del rapporto di lavoro non volendo esporre i lavoratori ad un esperimento. I governi centrali hanno a loro volta scaricato sulle Regioni, non senza validi argomenti, la responsabilità di avere utilizzato le competenze in materia di collocamento e di formazione secondo l’interesse corporativo di collocatori e formatori.
A questo punto, nel vivo di una trasformazione epocale dei modi di produrre e lavorare, è evidente la necessità di realizzare risposte nuove in termini di condizionalità dei sussidi e di opportunità per i disoccupati. Da un lato la natura strutturale di molte crisi aziendali induce ad accelerare i tempi della separazione dei lavoratori dal loro declino irreversibile, dall’altro ogni sostegno al reddito deve essere accompagnato da concrete e tempestive possibilità di transizione a nuove competenze e abilità quale presupposto di una occupazione. Non è certo più il tempo del mero incontro tra domanda e offerta di lavoro né dei corsi professionali a catalogo costruiti sugli educatori disponibili. L’occupabilità si realizza nei territori attraverso reti fra scuole, università, imprese, fondi interprofessionali, centri pubblici e agenzie private per l’impiego, in una gara nobile fra tanti percorsi teorico-pratici.
Non deve tuttavia menare scandalo nella fase di passaggio la reintroduzione di qualche contenuta flessibilità nelle forme di sostegno al reddito e di prepensionamento. A quest’ultimo possono concorrere regole previdenziali più duttili ma un pochino onerose e risorse delle imprese per l’accompagnamento all’età di maturazione della prestazione. Soprattutto le donne, penalizzate dall’improvviso balzo di sei anni dell’età di “vecchiaia” e da percorsi lavorativi discontinui che non le fanno accedere alla pensione di anzianità contributiva, hanno legittime attese.
Ai decisori centrali e regionali il dovere di forti intese per cucire vecchio e nuovo. Unendo cuore e ragione.
Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi