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Le modifiche apportate dall’art. 15 lett. f) del D. Lgs. n. 101/2018 (di adeguamento al GDPR) all’art. 171 del D. Lgs. n. 196/2003 si sostanziano in una completa riscrittura di quest’ultimo. La disposizione in commento, in vigore nella sua versione attuale dallo scorso 19 settembre, sanziona, come noto, alcune violazioni dello Statuto dei Lavoratori.
Il novellato art. 171 del D. Lgs. n. 196/2003, ora rubricato “Violazioni delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori” in luogo di “Altre fattispecie” stabilisce infatti che “La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della medesima legge”.
Rispetto alla previgente versione preme segnalare come sia stata mantenuta l’impostazione del rinvio legislativo attraverso il richiamo dell’applicabilità delle sanzioni di cui all’art. 38 Stat. Lav. per le violazioni di altre disposizioni statutarie.
Una prima lettura della nuova versione dell’articolo in commento consente immediatamente di cogliere le due principali differenze rispetto alla precedente formulazione:
- previsione della sanzionedi cui all’art. 38 Stat. Lav. per le violazioni commesse con riferimento al solo comma 1 dell’art. 4 Stat. Lav.;
- previsione espressa e senza il rimando all’art. 113 del D. Lgs. n. 196 della medesima sanzioneper la violazione delle disposizioni di cui all’art. 8 Stat. Lav.[1]
Una prima lettura della disposizione in commento consente, pertanto, di sviluppare alcune considerazioni in merito alle previsioni penalmente sanzionabili.
Volendo preliminarmente concentrare l’analisi intorno al primo profilo, si evidenzia, come chiarito dalla norma con riferimento all’art. 4, che saranno penalmente sanzionabili esclusivamente le violazioni relative al primo comma. In altri termini la fattispecie penale punirà tutte quelle violazioni connesse all’impiego di impianti audiovisivi o altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori per esigenze che non siano organizzative e produttive, legate alla sicurezza sul lavoro o alla tutela del patrimonio aziendale, nonché tutte quelle violazioni legate al mancato rispetto della procedura autorizzatoria (sindacale o amministrativa) per quanto attiene all’installazione degli impianti stessi. La norma non sanzionerà più, come in precedenza, le violazioni connesse al secondo comma dell’art. 4 e dunque relative ai c.d. strumenti di lavoro e a quelli di registrazione degli accessi e delle presenze.
Provando ad intercettare le possibili ragioni che hanno condotto il Legislatore ad intervenire sui profili sanzionatori penalistici dell’art. 4 Stat. Lav., occorre considerare, con riferimento alla norma nella sua precedente versione, come fosse stato già osservato in dottrina[2] che, al di là della poca chiarezza derivante dai vari richiami normativi, la violazione della norma ipotizzabile fosse esclusivamente quella relativa al comma 1, il quale pone condizioni di impiego e di installazione degli strumenti di potenziale controllo a distanza. Si precisava inoltre come la violazione del comma 1 si sostanziasse anche in tutte quelle ipotesi di errata applicazione del regime del secondo comma a fattispecie invece rientranti nel regime del primo.
In armonia con tale chiave di lettura, in altra sede[3], era stata messa in luce l’evidente aporia legislativa della precedente versione dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196/2003 determinata dall’inclusione nel novero delle condotte penalmente rilevanti delle violazioni del secondo comma dell’art. 4 Stat. Lav. Si sottolineava infatti come, limitandosi il secondo comma ad escludere dalle condizioni di cui al primo i c.d. strumenti di lavoro, non venisse posto “nessun diverso obbligo sanzionabile”. Il richiamo del secondo comma, operato sino allo scorso 19 settembre dall’art. 171, non configurava pertanto la sanzione per una violazione vera e propria in quanto la disposizione del comma 2 dell’art. 4 non introduceva nessun obbligo, ma comportava esclusivamente un’eccezione rispetto alla disciplina applicabile di cui al comma 1[4]. Tale dottrina non condivideva infatti la posizione di chi sosteneva che la violazione di quanto previsto al comma 2 si sostanziasse nella trasformazione di uno strumento di lavoro in strumento di controllo mediante l’impiego di applicativi quali i keyloggers o simili[5]. Si ribadiva in proposito come in realtà questa interpretazione non aggiungesse nulla rispetto alla tutela già prevista dal primo comma. La trasformazione di uno strumento di lavoro avverrebbe infatti tramite software, i quali devono essere qualificati come strumenti di controllo e, come tali, devono essere soggetti alle finalità indicate dalla norma ed ai vincoli procedurali.
Tentando in questa sede di andare oltre la prospettiva appena delineata, in ragione della modifica legislativa intervenuta, e cercando di cogliere ragioni che vanno al di là della mera tecnica di razionalizzazione normativa, si potrebbe ipotizzare che il Legislatore abbia inteso sottrarre definitivamente (ed espressamente) dal novero delle condotte penalmente sanzionabili quelle di cui al comma 2 dell’art. 4 in ragione di un sempre maggiore senso di “liberalizzazione” rispetto a tutti quei c.d. strumenti di lavoro. In altri termini la novella legislativa terrebbe conto del fatto che, essendo gli strumenti di lavoro (se correttamente individuati) dotati di intrinseche potenzialità di controllo, non avrebbe ormai più senso ipotizzare una fattispecie incriminatrice, la quale finirebbe per scontrarsi con un numero di fattispecie quantitativamente sempre maggiore alla luce del costante progresso tecnologico. L’attenzione dell’ordinamento sarà dunque da focalizzare sui concetti di disponibilità e di integrità dei dati acquisiti, i quali, in base al quadro normativo vigente, non sono più ontologicamente preclusi se legittimamente raccolti, e non sul rilievo penale, ormai anacronistico, di presunti illeciti relativi agli strumenti di lavoro. La fattispecie penale del resto continua a sanzionare tutte quelle violazioni di cui al primo comma.
Per quanto attiene alla previsione sanzionatoria per le violazioni di cui all’art. 8 Stat. Lav., parrebbe che il Legislatore abbia inteso effettuare anche in tale caso una auspicata semplificazione e razionalizzazione normativa, includendo espressamente dette violazioni all’art. 171 ed evitando pertanto il precedente richiamo all’art. 113 del D. Lgs. n. 196/2003.
Preme inoltre ricordare che all’art. 113 del D. Lgs. n. 196/2003 è stato ora inserito il richiamo anche all’art. 10 del D. Lgs. n. 276/2003[6]. In base a quanto ora previsto dall’art. 171, la sanzione penale di cui all’art. 38 dello Statuto colpirà tutte quelle violazioni relative al divieto imposto al datore di lavoro dall’art. 8 della medesima Legge di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sia ai fini dell’assunzione che in corso di rapporto, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale dello stesso.
Occorre tuttavia tenere presente come, per effetto di quanto disposto dall’art. 18, comma 5, del D. Lgs. n. 276/2003, la violazione di quanto disposto dal richiamato art. 10 del D. Lgs. n. 276 comporta anch’essa l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 38 dello Statuto dei Lavoratori, nonché, nei casi più gravi, la sospensione della autorizzazione o, in ipotesi di recidiva, la sua revoca.
L’art. 10 del D. Lgs. 276, ricalcando in parte i contenuti dell’art. 8 dello Statuto, amplia in misura rilevante il campo di applicazione del divieto, prevedendo in tale caso il divieto per le Agenzie per il lavoro e per gli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di indagine, trattamento dati o preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, annoverando tra le materie oggetto del divieto le convinzioni personali, l’affiliazione sindacale o politica, il credo religioso, il sesso, l’orientamento sessuale, lo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, l’età, l’handicap, la razza, l’origine etnica, il colore, l’ascendenza, l’origine nazionale, il gruppo linguistico, lo stato di salute nonché le eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento della attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. La disposizione sottolinea inoltre come sia fatto espresso divieto di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo.
Alla luce del quadro normativo delineato, caratterizzato da un evidente grado di complessità, figlia anche del costante utilizzo della tecnica del rinvio legislativo, si potrebbe concludere che il mancato richiamo dell’art. 113 da parte dell’art. 171 vada letto in un’ottica di semplificazione e razionalizzazione normativa. Le violazioni commesse rispetto all’art. 10 del D. Lgs. n. 276 restano infatti penalmente sanzionate, con le sanzioni previste dall’art. 38 Stat. Lav., proprio per effetto della citata disposizione di cui all’art. 18, comma 5, del D. Lgs. n. 276/2003. La fattispecie sanzionatoria penalistica di derivazione statutaria colpirà dunque, per effetto di due distinte disposizioni di richiamo, le violazioni commesse e relative sia all’art. 8 dello Statuto che all’art. 10 del D. Lgs. 276.
Il richiamo espresso dell’art. 10 operato dal novellato art. 113 del D. Lgs. n. 196 potrebbe essere letto in un’ottica di maggiore attenzione del Legislatore nell’attività di raccolta dei dati e della loro pertinenza rispetto ai richiamati concetti di integrità e disponibilità dei dati personali. In altri termini, all’interno di un mercato del lavoro caratterizzato dal sempre maggiore progresso tecnologico, la norma del Codice Privacy avrebbe inteso richiamare, per ragioni di coerenza di sistema, ed in maniera parallela rispetto a quanto già effettuato con l’art. 8 dello Statuto, anche il citato art. 10 del Decreto 276, proprio per rimarcare la fondamentale importanza della legittimità delle azioni conoscitive poste in essere dal datore di lavoro, dalle Agenzie per il lavoro o dagli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
[1] La previgente versione dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196/2003 disponeva infatti che “La violazione delle disposizioni di cui all’articolo 113 e all’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge n. 300 del 1970”. Proprio l’art. 113, nella sua precedente formulazione prevedeva che “Resta fermo quanto disposto dall’articolo 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.
[2] Cfr. sul punto R. Del Punta, La nuova disciplina sui controlli a distanza sul lavoro (art. 23 D. Lgs. n. 151/2015), in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 1, 2016, pp. 90 – 91.
[3] V. E. Dagnino, Tecnologie e controlli a distanza, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2015, n. 4, pp. 1004 – 1005.
[4] Sul punto v. E. Dagnino, La Cassazione penale sui controlli a distanza post Jobs Act: continuità del tipo di illecito, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2017, n. 1, pp. 181 – 187.
[5] V. E. Dagnino, Tecnologie e controlli a distanza, cit., 1004, laddove non viene condivisa la posizione di A. Stanchi, Nel Jobs Act il nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in GLav, 2015, n. 38, 41 (per come richiamato nella nota n. 59).
[6] Il novellato art. 113 del D. Lgs. n. 196/2003 dispone infatti che “Resta fermo quanto disposto dall’articolo 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché dall’articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.