Sembrava la “svoltabuona” del contratto unico a tempo indeterminato, annunciato come cardine del Jobs Act, e invece ci troviamo l’ennesimo intervento sul lavoro a termine diventato da tempo il vero e principale canale di accesso al lavoro come anche confermato dal Ministro del lavoro Poletti nella conferenza stampa di presentazione delle misure sul lavoro approvate del Consiglio dei Ministri del 12 marzo 2014. Dopo i numerosi rimaneggiamenti dal 2001 a oggi (ben quattordici se si escludono gli interventi nel settore del pubblico impiego) e le modifiche a colpi di cacciavite introdotte dal Pacchetto Letta dello scorso luglio, registriamo così un nuovo intervento sul contratto di lavoro a tempo determinato. Il nuovo Governo e il Ministro del lavoro superano agilmente (e questo è certamente un merito) le secche entro cui si era arenato l’ex Ministro Giovannini nell’improduttivo e ancora ideologico confronto tra associazioni datoriali e sindacati sulle misure straordinarie per il lavoro connesse a Expo 2015.
Più volte esperti e studiosi hanno parlato, sui temi del lavoro, di riforma epocale. Raramente così è stato, nel passato, e anche in questo caso saremo titubanti nell’impiego di espressioni forti e toni enfatici se non fosse che il paradigma di regolazione del diritto del lavoro italiano è davvero cambiato. Non è ancora noto il testo del decreto-legge varato dal Governo e, dunque, non sappiamo se verrà confermato o meno il principio, formalmente sancito dagli interventi correttivi del 2007 sul decreto legislativo n. 368/2011, della centralità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma comune dei rapporti di lavoro. Né chiare sono ancora le intenzioni del Governo come documentato dal pasticcio di un primo comunicato stampa ufficiale, relativo alla liberalizzazione del solo primo rapporto a termine, subito contraddetto da una seconda nota ufficiale apparsa sul sito del Ministero che ora chiarisce la possibilità di stipulare sempre e comunque un contratto a termine cosiddetto acausale.
Sta di fatto, tuttavia, che la previsione di una totale libertà di assunzione a termine per una durata massima di tre anni, senza l’obbligo di alcuna giustificazione oggettiva (ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive) o anche solo soggettiva (caratteristiche delle imprese come nel caso delle start-up o dei gruppi di lavoratori interessati in funzione dello stato di disoccupazione o inattività) ribalta sul piano sistematico e non solo operativo la regola formale prevista pure nel preambolo della direttiva europea del 1999. E, al tempo stesso, contraddice l’aspirazione di fondo e l’ambizioso impianto progettuale dell’atteso Jobs Act facendo del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato una ipotesi meramente marginale rinviando parimenti a tempi migliori l’atteso intervento sull’articolo 18 vera anomalia italiana nel confronto internazionale e comparato e nodo storico della modernizzazione (mancata) del nostro diritto del lavoro.
Con l’inserimento di un tetto massimo di otto proroghe, frutto del chiarimento/pentimento successivo al Consiglio dei Ministeri del 12 marzo, e la decisione di non toccare i rinnovi viene opportunamente scongiurato il rischio di una procedura di infrazione della direttiva europea del 1999 che impone la presenza di vincoli alla reiterazione dei contratti a termine. Per la “svoltabuona” della riforma organica del mercato del lavoro dobbiamo invece ancora attendere e lo faremo con fiducia, in attesa della presentazione del disegno di legge delega sulla semplificazione, lasciando tuttavia sulle spalle delle imprese e dei loro consulenti legali la scelta tra una oramai facile occupazione precaria o lo sforzo progettuale di un modo di fare impresa responsabile che veda sulle persone non un vincolo ma una opportunità su cui investire nel lungo periodo.
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT