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Bollettino ADAPT 20 maggio 2019, n. 19
Un insieme di fattori diversi – le modifiche introdotte dal Decreto dignità, la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, gli orientamenti della giurisprudenza sulle c.d. tutele crescenti – sta generando un fenomeno del tutto imprevisto e imprevedibile: il regime sanzionatorio sui licenziamenti introdotto dal Jobs Act è diventato mediamente più conveniente, per i lavoratori, rispetta alla disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Può sembrare un’affermazione paradossale, considerata l’eco mediatica che ha accompagnato l’introduzione del d.lgs. 23/2015; eppure, da allora le cose cambiate profondamente, come si può comprendere confrontando i punti centrali dei due regimi sanzionatori.
Il primo aspetto interessato dal cambiamento riguarda l’entità massima dell’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore nei casi in cui non si applica la reintegrazione.
Il legislatore del d.lgs. 23/2015 aveva scelto di contenere il calcolo dell’indennità entro una soglia massima di 24 mensilità, lo stesso “tetto” fissato dall’articolo 18 come importo massimo dell’indennità.
Questa situazione è cambiata in modo rilevante con le norme del c.d. decreto dignità (D.L. 87/2018, convertito nella legge 96/2018), che ha portato la soglia massima dell’indennità a 36 mesi (con un innalzamento anche della soglia minima).
Tale innovazione, che inizialmente sembrava marginale, è diventata molto rilevante quando è stata emanata la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, che ha cancellato il meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria previsto per le tutele crescenti.
La sentenza ha rimesso il Giudice al centro del sistema di quantificazione del risarcimento del danno, esattamente come accade per chi è soggetto all’articolo 18, limitandosi a definire alcuni parametri devoluti al suo libero apprezzamento (anzianità lavorativa, dipendenti e dimensioni dell’azienda, comportamento e condizioni delle parti).
La doppia novità – soglia massima che cresce da 24 a 36 mesi, discrezionalità del Giudice nella quantificazione dell’indennità – ha cambiato completamente la convenienza relativa dei due regimi.
Il lavoratore soggetto alle tutele crescenti oggi può ottenere un risarcimento che va da 6 a 36 mensilità, sulla base di una valutazione discrezionale del Giudice; se lo stesso lavoratore rientrasse nel regime dell’articolo 18, avrebbe una prospettiva molto più limitata, potendo ambire a un massimo di 24 mensilità.
Qualcuno potrebbe obiettare che questa comparazione è sbagliata, in quanto tra le due discipline cambiano i casi nei quali non si applica la reintegra (e quindi spetta l’indennità risarcitoria). Tali casi, al momento dell’approvazione del d.lgs. 23/2015, erano in effetti ben più ampi nell’area delle tutele crescenti, normativa approvata proprio per ridurre il campo di applicazione della reintegra.
Anche questa situazione è, tuttavia, oggi profondamento cambiata. La giurisprudenza ha riavvicinato in maniera significativa le due discipline, in un percorso di azzeramento delle differenze sublimato dalla recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 12174/2019), dove è stato ribadito un concetto già emerso più volte nella giurisprudenza di merito: l’inesistenza del fatto, anche nelle tutele crescenti, deve intendersi come “non rilevanza disciplinare” dello stesso.
Se un datore di lavoro contesta un fatto storicamente avvenuto, ma privo di rilevanza disciplinare, si applica, secondo la Suprema Corte, la reintegra, esattamente come accade per chi è soggetto all’articolo 18: in questo modo, viene depotenziata la scelta del legislatore di introdurre l’aggettivo “materiale” per restringere la reintegra ai soli casi nei quali il datore di lavoro inventava di sana pianta una certa condotta.
In questa sede non si vuole giudicare la correttezza delle scelte, legislative e giurisprudenziali, che hanno generato questa situazione; piuttosto, si vuole segnalare la necessità di avviare una riflessione circa un sistema normativo che è del tutto irrazionale, in quanto nasce dalla sommatoria di modifiche e innovazioni del tutto scoordinate tra di loro.
Irrazionalità accentuata dal fatto che i due regimi si applicano a platee differenziate solo per la data di assunzione, vizio di origine derivante dalla scelta compiuta nel 2015 di applicare le “tutele crescenti” solo ai nuovi assunti.
Il rovesciamento delle convenienze tra i due sistemi non mancherà di avere qualche riflesso anche rispetto a quegli accordi – individuali o collettivi – che hanno garantito, per via contrattuale, a singoli lavoratori oppure a gruppi di essi il mantenimento delle regole contenute nell’articolo 18, presupponendo la maggiore convenienza di tale sistema.
In un contesto così diverso da quello di partenza, la validità di tali intese dovrà essere verificata caso per caso, non essendo pensabile che il Giudice possa limitarsi ad applicare la (minore) soglia dei 24 mesi per lavoratori che, in ragione della data di assunzione, potrebbero avere diritto a un risarcimento più alto.
Un altro impatto importante potrà esserci nella gestione delle crisi aziendali: la costruzione dei piani di incentivazione all’esodo dovrà tenere conto dell’esistenza di due sistemi di tutela che viaggiano su binari diversi.
Un legislatore attento ai problemi del lavoro dovrebbe farsi carico di risolvere questa situazione prima che produca danni concreti al sistema; purtroppo, visto l’alto tasso di impopolarità che travolge chiunque si avvicina alla materia, difficilmente qualcuno se ne farà carico nel breve e nel medio periodo, lasciando alle aule di tribunale il compito di dipanare una massa molto ingarbugliata.
Giampiero Falasca