Il Protocollo sul lavoro agile per l’inclusione sociale delle persone con disabilità

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Bollettino ADAPT 13 dicembre 2021, n. 44
 
All’esito del confronto con le Parti Sociali, promosso dal Ministro del Lavoro, il 7 dicembre 2021 è stato raggiunto l’accordo sul Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile nel settore privato. In particolare, la mediazione condivisa fissa il quadro di riferimento oltre l’emergenza per questa modalità di esecuzione della prestazione, che si appresta a divenire protagonista di una nuova «concezione dell’organizzazione del lavoro, meno piramidale e più orientata a obiettivi e fasi di lavoro».
 
Avvalendosi del Gruppo di studio sul “Lavoro agile”, presso il Dicastero si sono intercettati pregi e limiti di un modo di lavorare espressamente privo di «precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro» e, senza apportare modifiche formali e strutturali alla L. n. 81/2017, sono state individuate possibili soluzioni alle criticità emerse durante i mesi della pandemia. La consultazione con le Parti Sociali, oltre a enfatizzare l’importanza dell’accordo individuale nel patto di agilità, ha anche messo in luce come questo strumento possa effettivamente migliorare il benessere della persona che lavora e l’organizzazione aziendale.
 
Il Protocollo affonda le sue radici nell’interazione con stakeholder qualificati (oltre alle Parti Sociali, sono stati coinvolti i Consulenti del lavoro e le imprese da loro supportate): a monte della sottoscrizione si è, infatti, osservato che «il lavoro agile può favorire il bilanciamento tra sfera personale e lavorativa […], favorendo altresì un risparmio in termini di costi e un positivo riflesso sulla produttività». Dacché, le Parti firmatarie hanno raggiunto l’intesa, convenendo sulla necessità di promuovere lo sviluppo post pandemico del lavoro agile e di realizzare azioni condivise per fornire risposte concrete alle trasformazioni in atto nel mercato (e nell’organizzazione) del lavoro, di modo da incentivare la nascita di un moderno sistema di relazioni industriali.
 
Lungi dal rappresentare un mero atto ricognitivo della L. n. 81/2017 e delle consapevolezze restituite dall’esperienza Covid-19, il Testo condiviso intende esprimere le linee di indirizzo anche per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e/o territoriale, nel pieno rispetto della disciplina vigente. Dalla lettura dell’Accordo emerge, dunque, la presa di coscienza della «crescente attenzione per le esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», nonché «per un impiego delle risorse rispettose della sostenibilità ambientale e del benessere collettivo», dando seguito, in tal senso, agli approdi cui sono giunte la dottrina, la prassi e la normativa emergenziale.
 
Le prospettive di un lavoro (veramente) agile e inclusivo
 
Sebbene le indagini empiriche condotte durante la pandemia documentino come l’agilità del lavoro sia compatibile con una quota elitaria di mestieri, riconducibile al solo segmento impiegatizio “puro”, non si può ignorare come la reportistica nazionale avverta che la platea dei possibili lavori (e lavoratori) “smartabili” si sta ampliando ed è destinata ad ampliarsi ulteriormente.
 
Invero, il progressivo affermarsi della cd. Industria 4.0 ha comportato una ibridazione delle professioni, per cui molte di queste prevedono una porzione, più o meno vasta, di attività latamente intellettuali, eseguibili da remoto. Del pari, la contingenza pandemica – determinando un rapido impulso al lavoro “a distanza” (rectius, “da casa”) – ha accelerato i processi di innovazione nei contesti di impiego, tanto nel pubblico, quanto nel privato.
 
Gli scenari prospettici evidenziano, quindi, come la tensione sia sempre più verso un lavoro «per fasi, cicli e obiettivi», in cui lo scambio sinallagmatico fra prestazione (in presenza) e retribuzione andrà mutando, in favore di metriche ove acquisiranno una maggiore rilevanza l’autonomia, la responsabilità e il risultato della prestazione stessa.
 
Ancorché confinati entro le mura domestiche, con orari rigidi e spesso dilatati, i prestatori hanno sperimentato i pro e i contro di questa modalità di lavoro, concepita, nel contesto pandemico, solamente quale risposta alla propagazione del contagio e dispositivo di prevenzione per deboli e fragili (specie, bambini, anziani e disabili). Nonostante le criticità palesatesi nella sua versione emergenziale, il lavoro agile si è comunque dimostrato uno strumento di inclusione per le persone interessate a un miglior bilanciamento delle proprie esigenze di vita e di lavoro – anche mutate rispetto al passato – ovvero per coloro che abbisognano di accomodamenti ragionevoli.
 
Sulla scia di tale sperimentazione forzata, in una normalità ritrovata, occorrerà allora valorizzare le potenzialità del (vero) lavoro agile come strumento inclusivo per le persone sfavorite dal (e nel) lavoro tradizionalmente reso. Ciò in ragione del fatto che l’inclusione sociale deve essere intesa, da un lato, quale fine ultimo del diritto del lavoro e, dall’altro, quale risorsa per la realizzazione di strategie di gestione delle diversità, che possano “fare la differenza” nelle organizzazioni aziendali, a beneficio di tutti.
 
Il lavoro agile quale misura di accomodamento ragionevole
 
Sulla scorta delle sollecitazioni di matrice europea (Dir. 2000/78/CE sulla «parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro») e sovranazionale (Conv. ONU «sui diritti delle persone con disabilità» del 2006), il sistema italiano di integrazione socio-lavorativa delle persone con disabilità – inizialmente fondato su mere agevolazioni e incentivi pubblici – è evoluto attraverso l’imposizione di specifici oneri da soddisfare in ogni fase del rapporto (da quella genetica e funzionale a quella estintiva).
 
In particolare, l’art. 3, c. 3-bis, d. lgs. n. 216/2003 (di recepimento della cennata Direttiva) impone a ogni datore, pubblico o privato, di «adottare accomodamenti ragionevoli […] nei luoghi di lavoro». Di tal guisa, la parte datoriale è chiamata ad apportare una revisione ai propri assetti organizzativi «in funzione delle esigenze concrete della persona con disabilità», ovverosia a modificare e adattare lo status quo per garantirle «il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».
 
Siffatta previsione può collocarsi nel solco del più generale dovere di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., ampliando il novero delle misure preventive e rimediali, atte a tutelare «l’integrità fisica e la personalità morale» di tutti i prestatori (disabili inclusi) e ad assicurare loro la permanenza in un ambiente lavorativo confacente alle esigenze di ciascuno. A tanto si aggiunga che l’ONU ha espressamente ricompreso nella nozione di discriminazione fondata sulla disabilità il «rifiuto di accomodamenti ragionevoli» da parte del datore (art. 2, Conv. ONU 2006), integrando così una prassi inclusiva a tutela dei prestatori che, del tutto incolpevolmente, versano in una situazione di oggettiva difficoltà.
 
L’unica esimente per la parte datoriale è che siffatta riorganizzazione non comporti un «onere finanziario eccessivo o sproporzionato» rispetto alle dimensioni e alle risorse dell’impresa, tenuto conto delle misure compensative messe in campo dallo Stato a tale fine.
 
Posto che l’accomodamento ragionevole non sia una caritatevole offerta, ma un vero e proprio obbligo individuato dal legislatore, le imprese onerate dall’adattamento potrebbero usufruire del lavoro agile, in quanto strumento in grado di sostenere le necessità di conciliazione tra vita personale e professionale delle persone con disabilità, nonché i loro bisogni di cura e di assistenza, in termini di tempi e spazi da dedicarvi. Purché condivisa con l’interessato, infatti, la scelta di optare per un lavoro multiforme [reso, cioè, in alternanza tra locali aziendali e altro luogo individuato dal prestatore1 costituisce un’effettiva risposta, in termini prevenzionistici, alla ricerca del benessere organizzativo e alla lotta contro le discriminazioni basate sull’handicap.
 
In questa direzione, lo stesso Protocollo prevede che «le Parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole» (art. 10).
 
Se la scommessa è, dunque, quella di promuovere un modello di giustizia sociale, eretto sul divieto di discriminazioni e finalizzato alla rimozione delle barriere che ostano alla piena inclusione dei disabili nel contesto di impiego, il mezzo per vincerla è sensibilizzare le imprese e le istituzioni al tema dell’accessibilità, da intendersi non solamente come una qualità essenziale degli edifici, ma anche quale modo di concepire l’ambiente – e l’organizzazione – di lavoro. In questo, le organizzazioni di datori e lavoratori giocheranno una partita fondamentale, con gli obiettivi di stabilizzare una specialità emersa nel periodo emergenziale a tutela delle fragilità e di valorizzare il lavoro agile quale strumento inclusivo, di modo che a nessuno ne sia limitato il godimento.
 
Gli antidoti contro rischi di esclusione e di emarginazione
 
Acquisito che il lavoro agile – già evoluto da strumento diretto a «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» (L. n. 81/2017) a mezzo di organizzazione aziendale e leva per trattenere sul territorio risorse umane ritenute preziose – può costituire un’occasione per favorire l’integrazione socio-lavorativa delle persone con disabilità, occorre riflettere su come mitigare ogni possibile minaccia connessa a tale modalità di lavorare.
 
Certamente, nella prospettazione poc’anzi presentata, non può essere trascurato il ruolo ambivalente dell’agilità nella vita quotidiana delle persone con disabilità: se, da un lato, essa può offrire un’opportunità di inclusione lavorativa e di empowerment personale e sociale, dall’altro, può implicare anche rischi di isolamento domestico e relazionale.
 
Rispetto a quest’ultimo profilo, giova sottolineare come il Protocollo abbia confermato il requisito dell’alternanza tra la prestazione resa all’interno e quella resa all’esterno dei locali aziendali (invero, già previsto dall’art. 18, L. n. 81/2017). La duplice dimensione spaziale del lavoro agile consente, infatti, al prestatore sia di conciliare la vita professionale con quella privata (e, nel caso di specie, con le proprie esigenze di cura), sia di vivere le relazioni interpersonali all’interno dell’impresa. In tal senso, il requisito dell’alternanza è diretto a proteggere la persona con disabilità, impiegata in modalità agile, dai pericoli di emarginazione – e abbandono a sé stessa – nell’ambito domestico.
 
Inoltre, per contrastare l’isolamento e per sopperire alle problematiche legate alla carenza degli spazi, alla connessione internet e al possesso di dispositivi digitali non idonei, sarebbe auspicabile la costituzione di spazi pubblici e condivisi di co-working (anche attraverso il recupero degli edifici dismessi), premesso che l’Accordo riconosce alla contrattazione collettiva la possibilità di «individuare i luoghi inidonei allo svolgimento del lavoro in modalità agile per motivi di sicurezza personale» (art. 4, c. 2).
 
Altresì, il Protocollo evidenzia che «la formazione può costituire […] un momento di interazione e di scambio in presenza, anche per prevenire situazioni di isolamento» (art. 13, c. 3). Del pari, l’aggiornamento costante delle competenze della persona che lavora (specie sul versante digitale, quale fattore abilitante del lavoro agile) contribuisce a contrastare il rischio di esclusione per coloro che, più di altri, risultano sfavoriti nel digital divide, in quanto privi di un’adeguata alfabetizzazione tecnologica. Pertanto, se l’art. 20, c. 2, L. n. 81/2017 statuisce che «al lavoratore impiegato in forme di lavoro agili può essere riconosciuto il diritto all’apprendimento permanente», i contratti collettivi che andranno a regolare siffatta modalità di esecuzione della prestazione lavorativa potrebbero convertire quella che, oggi, è una mera facoltà rimessa all’accordo tra le parti in un diritto esigibile dal prestatore, per una manutenzione costante delle sue competenze.
 
Se è vero che il Protocollo richiama, in più battute, la sovranità dell’accordo individuale nel patto di agilità, nonché la piena libertà del lavoratore di negoziare con l’azienda un aspetto organizzativo estremamente importante, si ritiene opportuno che la contrattazione collettiva individui la strada da percorrere per garantire l’effettiva inclusione delle persone – e, in particolare, delle persone con disabilità – nella società e nel mercato del lavoro.
 
Massimiliano De Falco

Scuola di Dottorato di ricerca in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@M_De_Falco
 
1 Per dovere di completezza, occorre sottolineare come la libertà di determinazione del luogo di lavoro riconosciuta al lavoratore agile incontri il limite delle misure prevenzionistiche per sua la salute e la sicurezza ex art. 22, L. n. 81/2017 (riprese puntualmente dagli artt. 4 e 6 del Protocollo).

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