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Bollettino ADAPT 30 ottobre 2023, n. 37
Sono passati 10 anni dall’emanazione della legge n. 4 del 2013 sulle professioni non organizzate in ordini e collegi. È un tempo abbastanza lungo per provare a comprendere quale possa essere stato l’impatto della legge nell’ordinamento, cercando di trarre qualche analisi utile e quali possano essere le future evoluzioni.
La legge 14 gennaio 2013, n. 4 può essere considerata una vera innovazione poiché ha cercato in modo concreto di dare una cornice ed una regolamentazione alle attività professionali che non erano coperte da ambiti riservati dalla legge ma molto rilevanti in termini numerici nel moderno mercato dei servizi.
L’approvazione della legge nel 2013 è stata preceduta da una riflessione più ampia originatasi, nel corso delle ultime decadi del secolo scorso nell’ambito del nuovo associazionismo professionale, delle ricerche postfordiste – per usare una fortunata espressione coniata da Sergio Bologna – sul “lavoro autonomo di seconda generazione”, che si è pian piano riverberata in diverse sedi istituzionali, quali il CNEL, che sin dal 1992 ha avviato un filone di attività relativo a questo mondo elaborando diversi Rapporti di monitoraggio sulle associazioni delle professioni non regolamentate.
La domanda pressante da parte del mondo professionale per la previsione di una cornice in materia di professioni non regolamentate si inserisce in un più ampio discorso di mutamento delle tradizionali strutture regolative del mercato dei servizi professionali dovuto all’ampio processo di liberalizzazione innescato anche dalla normativa europea. Un cambiamento caratterizzato sempre più da un rallentamento delle richieste di pubblico riconoscimento da parte delle attività emergenti e di cambio di prospettiva da parte degli stessi ordini professionali che non hanno ostacolato il processo di riforma. È con queste coordinate che deve essere letta l’approvazione della legge n. 4/2013.
La filosofia di fondo del provvedimento è stata quella di assicurare un riconoscimento non basato su riserve, esclusività o istituzione di nuovi albi od ordini, bensì sul ruolo attivo della rappresentanza professionale e della normazione tecnica in ambito UNI ispirata a principi di democraticità, trasparenza, consensualità, volontarietà, massima partecipazione ai lavori, imparzialità, efficienza e aderenza alle esigenze del mercato.
Una delle peculiarità della legge 4 è rappresentata dall’articolo 1, comma 5, che non distingue in base ai paradigmi classici del lavoro ma afferma che la professione possa esercitarsi in forma individuale, associata, societaria, cooperativa o nella forma del lavoro dipendente. È una normativa che cerca quindi di superare i tradizionali steccati e sistemi di regolazione propri del diritto del lavoro non distinguendo il soggetto che lavora sulla base della forma con cui viene esercitata l’attività professionale. Questo comporta ricadute sull’articolazione della rappresentanza del lavoro autonomo professionale e sulle sue funzioni al confine tra associazioni con funzioni di controllo del mercato, funzioni sindacali, funzioni formative e di garanzia nei confronti del consumatore e dell’utente.
Cruciale è il ruolo della normazione tecnica in ambito UNI per la definizione di standard che non sono obbligatori e sono relativi all’attività professionale (requisiti, competenze, modalità di esercizio dell’attività). È proprio in questo ambito che con circa tre anni di anticipo rispetto alla legge n. 4/2013 che fu istituita la UNI/CT 006 sulle attività professionali non regolamentate (commissione tecnica APNR). Il mercato in un certo qualche modo, quindi, aveva già cercato di approntare una soluzione antecedentemente alla emanazione della cornice legislativa.
A 10 anni dalla legge 4 sono moltissime le norme e le prassi di riferimento (che costituiscono dei documenti para-normativi) dedicate alle professioni sia ordinistiche che non: sono infatti molte le professioni organizzate che hanno comunque scelto, nonostante la presenza di un ordine professionale di riferimento, di fare ricorso a certificazioni accreditate. Questo a testimonianza che la normativa volontaristica UNI ha assunto nel corso del tempo una sua importanza specialmente nelle professioni tecniche quali gli ingegneri, i periti poiché ritenute strumenti essenziali nello sviluppo dell’attività professionale grazie alla specificità e alle caratteristiche di queste tipologie di libere professioni. Da ultimo finanche gli studi professionali di avvocati e dottori commercialisti con la norma UNI 11871:2022 hanno fatto ricorso alla normativa tecnica con riferimento alla prevenzione, all’individuazione, alla gestione ed al controllo dei rischi connessi all’esercizio della professione. Emerge una forma nuova di tutela per la professione, anche ordinistica in questo caso, che va al di là della mera attestazione e certificazione della “fede pubblica” fornita dall’ordine professionale. La realizzazione di un sistema di riconoscimento e certificazione è in tal caso in piena sovrapposizione e compatibilità con quello riconosciuto dagli enti esponenziali ed anzi lo completa in una logica sussidiaria.
Diverse le problematiche che restano ancora aperte e che meriteranno una riflessione nel corso dei prossimi anni. Problematiche attinenti alla volontarietà e al riconoscimento da parte del mercato dal momento in cui non è di fatto presente un filtro ma tutto è basato su una non cogenza e su meccanismi volontaristici che solo in un secondo momento acquistano la loro credibilità nel mercato di riferimento.
Un secondo punto di possibile sviluppo è dato dal coordinamento e dalla valorizzazione della normativa volontaristica nell’ordinamento tramite meccanismi eventualmente promozionali che valorizzino l’accreditamento ed il ruolo delle associazioni professionali (cfr. legge 26 novembre 2021, n. 206 ove viene valorizzato il ruolo delle associazioni professionali dei mediatori familiari ex legge n. 4/2013). Proprio in quest’ottica di coordinamento tra diverse disposizioni legislative sarebbe importante trovare una qualche forma di dialogo tra il decreto legislativo n. 13/2013 inerente al sistema nazionale di certificazione delle competenze improntato su una logica fortemente centralistica e pubblicistica ed un impianto della legge 4/2013 vocato naturalmente ad una dimensione più sussidiaria e di devoluzione delle competenze alle associazioni e al mercato di riferimento.
L’ulteriore questione che emerge nell’ambito della rappresentanza del mondo autonomo professionale è rappresentata dall’equo compenso del professionista. La legge n. 49/2023 sull’equo compenso delle prestazioni professionali menziona esplicitamente nell’ambito soggettivo di applicazione all’art.1 “i professionisti di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 2013, n.4” demandando la definizione di equità del compenso ad un decreto del “Ministro delle imprese e del made in Italy da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e, successivamente, con cadenza biennale, sentite le associazioni iscritte nell’elenco di cui al comma 7 dell’articolo 2 della medesima legge n. 4 del 2013”. Quello della definizione dei parametri di riferimento per le professioni non regolamentate è una problematica assai risalente nel tempo (cfr. C. Dazzi, Equo compenso, quali criteri di riferimento per le professioni non ordinistiche?, in Bollettino ADAPT del 4 dicembre 2017, n. 41). Sono iniziate da poco le interlocuzioni presso il Ministero con le varie associazioni professionali e sarà interessante comprendere come verranno definiti i parametri.
Volgendo lo sguardo alla normativa sovranazionale e al diritto della concorrenza di matrice europea si possono scorgere diverse suggestioni ed aperture da parte della Commissione Europea che nel settembre 2022 ha adottato delle linee guida per dirimere il (possibile) conflitto tra la normativa euro-unitaria in materia di antitrust e gli accordi collettivi dei lavoratori autonomi. Pur essendo orientamenti di soft low, è forse proprio nella progettualità della Commissione Europea su questa materia che possono rintracciarsi spunti per stabilire l’equità dei compensi valorizzando il ruolo delle rappresentanze professionali piuttosto che parametri fissi stabiliti in sede ministeriale. Siamo ancora in una fase in via di edificazione ed articolazione ma le dinamiche di emersione dei fenomeni collettivi sono caratterizzate da una certa complessità. E proprio in quest’ottica potrebbe essere intrapresa una strada che tuteli l’equità del compenso nella direttrice di forme contrattual-collettive o pattuizioni anche per il lavoratore autonomo non in contraddizione con il diritto antitrust europeo, controbilanciando così diritti sociali e libertà economiche.
Andrea Zoppo
ADAPT Professional Fellow