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Bollettino ADAPT 29 marzo 2021, n. 12
Il 14 gennaio 2021 la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 553, è intervenuta su una questione particolarmente delicata che era, e continua ad essere, oggetto di diverse interpretazioni da parte della giurisprudenza.
Il caso esaminato riguarda una lavoratrice che, rifiutando il proprio collocamento forzoso in ferie, aveva proferito, nei confronti del suo superiore gerarchico, “frasi offensive e minacciose”, alle quali aveva fatto seguito il licenziamento disciplinare della stessa. La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la motivazione della Corte di Appello di Bari, la quale si era espressa nel senso della legittimità di detto licenziamento.
Risulta particolarmente interessante la causa scatenante la reazione della lavoratrice, ossia il collocamento forzoso in ferie, tema che, in questo periodo di emergenza sanitaria, è diventato più che mai attuale.
Infatti, a partire dal D.P.C.M. dell’8 marzo 2020 il Governo ha raccomandato alle aziende, tra l’altro, l’utilizzo delle ferie quale misura idonea a contenere la diffusione del Covid-19. Nonostante si tratti di una semplice raccomandazione rivolta ai datori di lavoro pubblici e privati, affinché promuovano “la fruizione dei periodi di congedo ordinario e ferie” (art. 1, comma 1 lett. e), essa ha contribuito al proliferare di provvedimenti datoriali che dispongono il collocamento forzoso in ferie dei dipendenti, quale effettivo mezzo utilizzato dalle aziende per meglio organizzare il lavoro (o il calo di lavoro) nell’ultimo anno.
La suddetta raccomandazione è stata da ultimo confermata dal D.P.C.M. del 2 marzo 2021, che ha previsto la possibilità per le imprese di disporre, ove possibile, il proseguimento dell’attività lavorativa mediante ricorso allo smart working; altrimenti, nel caso in cui tali misure non dovessero risultare sufficienti “si utilizzeranno i periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti” (v. punto 8, Allegato 12, richiamato dall’art. 6, comma 5 del citato D.P.C.M.).
Si può ritenere, quindi, che nell’attuale contesto normativo e di emergenza sanitaria, un rifiuto al collocamento forzoso in ferie, accompagnato da una reazione “scomposta” nei confronti del datore di lavoro, potrebbe con ogni probabilità – e a maggior ragione rispetto al caso esaminato dalla Cassazione, i cui fatti risalgono ad un periodo antecedente rispetto all’attuale emergenza sanitaria – integrare la fattispecie della giusta causa di licenziamento. Ciò in quanto, ad avviso di chi scrive, la regola generale secondo cui la fruizione delle ferie deve essere concordata tra datore e dipendente trova un’eccezione nell’attuale periodo emergenziale in forza della normativa sopra citata (e quindi non si potrebbe neppure considerare l’esimente della reazione ad un’azione illegittima del datore di lavoro, che pure la sentenza in esame non aveva considerato sufficiente per escludere la legittimità del licenziamento disciplinare).
Altro spunto interessante offerto dalla citata sentenza riguarda il limite entro il quale il lavoratore può “criticare” il datore di lavoro senza il rischio di incorrere in un licenziamento disciplinare. A tal proposito può essere utile ripercorrere gli ultimi orientamenti giurisprudenziali al riguardo.
Nella giurisprudenza di merito, si veda la recente pronuncia del Tribunale di Civitavecchia, 20 maggio 2020, n. 222, che ha confermato la legittimità del recesso per giusta causa intimato ad una lavoratrice che aveva pronunciato frasi offensive nei confronti del suo superiore gerarchico. In particolare, il Tribunale ha richiamato il principio affermato dalla Cassazione relativamente al concetto di insubordinazione, che non deve limitarsi “al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione”, quale può essere “la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti [..] (Cass., 11 maggio 2016, n. 9635)”.
Un altro caso interessante, sul quale si è pronunciata la Suprema Corte (cfr. Cass., 6 giugno 2018, n. 14527), ha riguardato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a cinque dipendenti, i quali avevano inscenato pubblicamente una finta impiccagione sul patibolo e un funerale, chiaramente riferibile all’amministratore delegato della società datrice di lavoro, con contestuali manifesti recanti frasi ingiuriose nei confronti dell’amministratore e della società, ritenuti colpevoli del suicidio di alcuni lavoratori.
La Corte di Cassazione, pronunciandosi sulla questione, ha rigettato quanto precedentemente affermato nel merito dalla Corte distrettuale che, al contrario, si era espressa per l’insussistenza della giusta causa, ritenendo conforme al diritto di critica la rappresentazione scenica posta in essere dai lavoratori. La Corte territoriale – facendo leva sul concetto di satira, che si serve di vocaboli coloriti ed immagini forti – aveva ritenuto che il comportamento dei lavoratori rientrasse a pieno titolo nel legittimo esercizio del diritto di critica, in quanto la rappresentazione era avvenuta comunque “senza uso di violenza, di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica o denuncia che si intendeva realizzare”.
Al contrario, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di appello, poiché la condotta dei lavoratori risultava eccedente i “limiti della continenza formale, attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana richiesto dall’art. 2 Cost. che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche ma pur sempre misurate tali da evitare di evocare pretese indegnità personali” (Cass. n. 14527/2018, cit.).
Vi sono, tuttavia, altre pronunce nelle quali la giurisprudenza, anche di legittimità, pur in presenza di offese verbali dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, si è pronunciata nel senso di escludere la legittimità del licenziamento per giusta causa a seguito della valutazione del caso concreto e, in particolare, del contesto e delle effettive modalità mediante le quali si è realizzata l’offesa. A tal proposito si possono richiamare, a titolo esemplificativo, due sentenze della Corte di Cassazione – rispettivamente del 22 giugno 2012, n. 10426, e dell’11 febbraio 2015, n. 2692 – che hanno deciso su ricorsi del datore di lavoro, il quale – in entrambi i casi – chiedeva di cassare la sentenza di appello che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato per atti di insubordinazione consistiti nella pronuncia di frasi ingiuriose nei confronti del superiore gerarchico.
In entrambe le pronunce, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso della società:
- nel primo caso, ritenendo che il comportamento posto in essere dal datore di lavoro, seppur spiacevole, poteva qualificarsi come una “mera inottemperanza verbale”, anche per il tono utilizzato che risultava “scherzoso”, tale da non integrare gli estremi di una insubordinazione e pregiudicare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro;
- nel secondo caso, invece, facendo leva sulla situazione concreta, ossia sul “turbamento psichico” nel quale si trovava il lavoratore, convinto di essere stato vittima di un’ingiusta delazione, si è ritenuto di poter classificare l’illecito disciplinare come atto di insubordinazione lieve, senz’altro rilevante disciplinarmente ma da punire con una mera sanzione conservativa e non con il licenziamento in tronco.
Le suddette pronunce, di fatto, evidenziano alcuni elementi concreti e di contesto – il tono scherzoso, lo stato di turbamento psichico – che sono stati considerati dai Giudici al fine di ritenere sproporzionato il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.
È, dunque, sempre fondamentale e necessario analizzare il fatto nel suo complesso e nello specifico contesto aziendale, tenendo conto tanto della condotta del lavoratore, quanto di quella del del datore di lavoro, al fine di stabilire una linea di confine tra legittimità e illegittimità del licenziamento irrogato per atti di aggressione verbale nei confronti di quest’ultimo.
In conclusione, può dirsi, richiamando un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., 7 gennaio 2020, n. 113) che “l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa (Cass. n. 21649 del 2016), rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio (Cass. 26.9.2017 n. 22375, Cass. n. 19092 del 2018, Cass. n. 14527 del 2018, Cass. n. 21362 del 2013)”.
Federico Ubertis
ADAPT Professional Fellow