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Bollettino ADAPT 17 ottobre 2022, n. 35
L’11 ottobre, presso la Sala Parlamentino del CNEL, si è tenuto l’incontro “Il ruolo degli organismi multilaterali nella regolazione del commercio globale” organizzato da ADAPT e partecipato da numerosi esponenti di importanti organizzazioni internazionali, istituti di ricerca e think tank.
In particolare, si sono susseguiti gli interventi di Maurizio Sacconi (Steering Committee Chairman ADAPT), Maurizio Bussi (Deputy Director ILO Europe), Maurizio Martina (Deputy Director general FAO), Giampiero Massolo (Presidente ISPI), Guido Rasi (già direttore EMA), Tiziano Treu (Presidente CNEL), e Giovanni Tria (Economista, Co-chair of China-Italy Economic and Financial Think Tank). ADAPT ha partecipato stendendo e presentando una nota preliminare sull’evoluzione delle organizzazioni internazionali, nonché intervenendo in conclusione dell’evento stesso.
L’obiettivo dell’incontro era quello di approfondire le potenzialità delle organizzazioni internazionali nella moderazione degli effetti maggiormente distorsivi del sistema di libero scambio commerciale globale, facilitando la transizione dalla sostanziale de-regolazione che lo caratterizza attualmente, ad un maggiore livello di equità e sostenibilità sociale, finalizzata alla realizzazione del c.d. “fair trade”.
Tale operazione si rende necessaria vista l’allarmante serie di crisi geopolitiche, sanitarie, economiche e ambientali che interessano il presente contesto storico; sembra definitivamente trascorso quel periodo in cui si pensava che la potenza risolutrice del libero mercato avrebbe favorito una progressiva e inarrestabile espansione dell’economia ed un miglioramento delle condizioni di vita dell’intera popolazione mondiale, che avrebbe dunque fatto esperienza di un duraturo periodo di pace e prosperità.
Oggi, infatti, ci si approccia alla globalizzazione con un atteggiamento di maggiore cautela, se non addirittura di vera e propria diffidenza, dato che le logiche del mercato libero sono sempre più spesso messe in dubbio nei termini della loro capacità di raggiungere obiettivi di crescita sostenibile.
Non è un caso, infatti, che, nel decennio appena trascorso, si sia registrato ampio consenso elettorale nei confronti delle forze politiche nazionali che si sono pronunciate a favore di un rinnovato “protezionismo” commerciale, opponendo dubbi e in alcuni casi una vera e propria ferma opposizione alla firma di nuovi trattati di libero scambio tra nazioni.
Le soluzioni proposte da tali forze politiche, tuttavia, si manifestano come soluzioni di portata nazionale a questioni di portata “globale”. Appare evidente, invece, come la gestione delle problematiche di un’economia e di un mondo sempre maggiormente interconnessi necessiti di un approccio diverso; si pensi soltanto alle esigenze evidenziate dalla pandemia da COVID-19, come ad esempio la circolazione delle fondamentali informazioni per la salute pubblica, il controllo sulla sicurezza delle attività di ricerca su virus e batteri e la distribuzione dei vaccini, le quali hanno dimostrato come un elemento di primario interesse come la salute globale imponga necessariamente l’azione congiunta di governi nazionali e organizzazioni internazionali.
D’altra parte, però, ad oggi i rapporti e le relazioni tra le stesse organizzazioni internazionali non sembrano idonei a perseguire un obiettivo così ambizioso.
Si pensi per esempio all’Organizzazione mondiale del Commercio (OMC), che possiede rapporti formali soltanto con le altre istituzioni nate in seguito alla stipulazione degli accordi di Bretton Woods, ossia il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale (BM), ma non con le principali agenzie delle Nazioni Unite, come ad esempio la Food and Agriculture Organization (FAO), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
In un simile contesto, appare evidente perché la prospettiva di una maggiore cooperazione tra agenzie internazionali costituisca un punto fondamentale dei più recenti sviluppi di policy delle Nazioni Unite: la c.d. “Agenda 2030” presuppone infatti un marcato “cambio di paradigma” per quanto concerne il tema del commercio sostenibile, basato principalmente sull’unificazione intersettoriale delle strategie delle diverse organizzazioni, al fine di realizzare con gradualità concreti passi nella direzione del rispetto effettivo di standard sociali universali minimi.
Esiste però un’organizzazione internazionale che ha già adottato significativi passi verso una regolazione di tipo sociale del mercato globalizzato, ossia l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale nel 1998 ha individuato un quadro di principi giuslavoristici condivisi inderogabili, da implementarsi necessariamente da parte degli Stati membri, a prescindere dal loro livello di sviluppo economico oppure dalla ratifica delle Convenzioni che già li contenevano.
Si tratta dei quattro c.d. “core labour standard”, descritti all’interno della “Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro e i suoi seguiti”, che si concretizzano nella libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva, l’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio, l’abolizione del lavoro infantile e l’eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione. A tali principi si aggiunge oggi, grazie alla Risoluzione OIL del 10 giugno 2022, il diritto a un luogo di lavoro salutare e sicuro.
L’idea fondamentale legata ai core labour standard OIL è quella di contrastare la concezione che vede la libertà commerciale come principio assiologicamente superiore ai diritti umani e sociali fondamentali, applicando dunque soluzioni in contrapposizione allo sfruttamento delle condizioni di supremazia economica proprie della più estrema concezione del free trade.
Tale “attivismo” da parte dell’OIL durante gli ultimi 25 anni è stato peraltro oggetto di ampio dibattito con l’Organizzazione Mondiale del Commercio, data l’importanza del rapporto tra standard nelle condizioni di lavoro e commercio internazionale.
C’è chi sosteneva, infatti, che l’applicazione dei core labour standard OIL quale condizione per la stipulazione di trattati commerciali celasse spinte “protezionistiche” dei paesi maggiormente industrializzati nei confronti dei paesi in via di sviluppo, volti a limitare la partecipazione di questi ultimi agli scambi commerciali sul mercato globale. Secondo altri, invece, tali principi costituivano un efficace metodo per evitare una progressiva “race-to-the bottom” delle condizioni di lavoro in nome del principio della concorrenza.
Tale contrapposizione si riflette anche all’interno di importanti trattati dell’epoca: all’interno della dichiarazione di Singapore, stipulata dall’OMC nel 1996, ad esempio, da una parte si confermava l’impegno delle parti contraenti al rispetto degli standard definiti dall’OIL, ma dall’altra si ribadiva che le questioni attinenti alle clausole sociali dei trattati dovessero essere considerate di sua competenza esclusiva e separata.
Oggi questa dicotomia sembra avere trovato una parziale conciliazione, considerando come circa l’80% dei trattati commerciali entrati in vigore dal 2013 ad oggi contiene clausole finalizzate ad impegnare le parti a non comprimere i propri labour standard al fine di aumentare la competitività dei rispettivi sistemi economici; è stato da molti sottolineato come, attraverso questo espediente, il sistema OIL abbia nei fatti aumentato il suo rilievo nel sistema commerciale globale.
Il principale quesito posto dai relatori dell’evento è qualora tale schema possa essere replicabile anche da altre organizzazioni internazionali come la FAO oppure l’OMS.
Eventuali standard in materia sanitaria o di sicurezza e qualità degli alimenti, definiti proprio da tali organizzazioni, potrebbero entrare a fare parte, insieme ai core labour standard, di un vero e proprio “pacchetto” di misure in materia sociale da inserirsi tramite apposite clausole all’interno dei trattati di libero scambio, pena l’esclusione dalla partecipazione al sistema commerciale globale. In altre parole, ci si chiede se la fissazione condivisa di principi minimi quali, ad esempio, la trasparenza relativa agli standard qualitativi delle merci, corredati da appositi strumenti di monitoraggio ed enforcement, possa apportare o meno un significativo contributo per quanto concerne la transizione verso il c.d. “fair trade”, spingendo al loro rispetto anche le nazioni fino ad oggi meno propense in tal senso.
In realtà, alcuni sistemi di fissazione di principi di tipo sociale da parte di tali organizzazioni internazionali già esistono, e si sostanziano spesso nella creazione di comitati congiunti al fine di trattare argomenti di interesse condiviso. È il caso, ad esempio, della Codex Alimentarius Commission, partecipata dalla FAO e dall’OMS, volta a individuare standard univoci per quanto concerne la sicurezza, la qualità e l’equità del commercio alimentare internazionale, ed identificata dal Sanitary and Phytosanitary Measures Agreement (stipulato dall’OMC) come l’organo ufficiale in tal senso.
Tuttavia, un’operazione come quella descritta e proposta dai relatori del convegno necessiterebbe di un livello di collaborazione tra organizzazioni internazionali che, ad oggi, risulta sostanzialmente inedito. L’eccezionalità dell’attuale situazione economica, geopolitica e sociale non può che richiedere infatti un profondo rinnovamento delle strategie fino ad ora utilizzate, se l’obiettivo è quello di assicurare la sopravvivenza e l’efficienza del sistema di libero scambio commerciale internazionale, conservando i suoi effetti positivi in termini di sviluppo economico dei paesi meno industrializzati, aumento nella produzione e diffusione delle nuove tecnologie, opportunità di accesso e conoscenza delle differenti culture mondiali, ed evitando il ritorno a scenari protezionistici e isolazionistici.
Diletta Porcheddu
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena