L’articolo di Emmanuele Massagli sul sindacato e le decisioni impopolari coglie l’essenza delle questioni cruciali sulla prospettiva del sindacato in Italia, che i sindacalisti ancora appassionati e preoccupati dovrebbero poter riprendere e rielaborare.
La prossima stagione autunno-inverno non potrà far altro che rendere più nude e stringenti tali questioni: quanto è rappresentativo il sindacato italiano sui luoghi di lavoro? Quanto non lo è verso i nuovi lavori e i giovani? Produce risultati tangibili o tende alla irrilevanza? Quanto è trasparente? È ancora credibile? Dove e quando deve essere ascoltato?
Sono domande che non vengono poste solo da campagne di stampa ed attacchi orditi da qualcuno nell’ombra. È il principio di realtà che chiede al sindacato di non vivere più di rendita e di dimostrare come e dove possa spendere la propria consistenza ed iniziativa. Smettendo di autodichiararsi trasparente e rappresentativo ed accettando di essere misurato sulla base di normali parametri che dovrebbero più spaventare le tante sigle poco o non confederali. Perché oggi essere credibili è la precondizione per poter essere ascoltati.
Solo con risposte nuove e discontinue rispetto alla routine sindacale di questi anni sarà possibile ritrovare una via originale e significativa nella grande trasformazione che il lavoro, l’economia e le condizioni dei lavoratori stanno sempre più vorticosamente registrando nel nostro Paese.
Pur avendo lodevolmente lavorato sul territorio con tenacia per fronteggiare le dure conseguenze della crisi sui lavoratori, il sindacato italiano ha cercato anche in questi anni di vivere di rendita, ricalcando piattaforme e posizioni datate, prioritariamente rivolto all’agone politico.
Nella modernità e nel cambiamento la rendita non è una ricchezza, è una zavorra. Liberarsene è fondamentale per tornare a correre.
Io penso che alle crude domande non più evitabili a cui siamo posti, il sindacato debba rispondere non rispolverando meriti storici o volontà attuali, né ripetendo il mantra circa la centralità dei “corpi intermedi”, bensì mettendo in campo un progetto e una identità che valorizzi e si concentri su 3 azioni prioritarie:
– la capacità di tutela del lavoro (nella realtà ben più diffusa ed efficace di quanto siamo in grado di narrare e di far cogliere a media imprigionati nel valorizzare solo il “sindacato dei no”)
– il definitivo superamento del dualismo nel mercato del lavoro tra protetti e non protetti
– la contrattazione categoriale e decentrata dentro un nuovo modello contrattuale (declinata nelle nuove tutele che una sana bilateralità può offrire in tema di previdenza, welfare, formazione, conciliazione vita-lavoro).
Tutto quanto oggi invece impegna abbondantemente il dibattito sindacale deve e può passare in secondo piano. In Europa nessun sindacato forte si occupa di fisco, parliamo pure di pensioni ma concentriamoci solo su rafforzare la previdenza complementare e tutelare il lavoro usurante.
Il Jobs Act è stato senza dubbio una grande occasione che solo la Cisl ha provato a cogliere, ma che continua a suonare come un campanello d’allarme sul rischio di irrilevanza definitiva del sindacalismo italiano. La politica ha provato a dare una indennità di disoccupazione universale, più centralità al contratto a tempo indeterminato, a superare storici dualismi tra tipologie contrattuali mentre il sindacato è stato per lo più fermo, rivelandosi nostalgico di modelli ormai datati.
La macchina sindacale è chiamata ad una forte revisione su se stessa, mettendo al centro una strategia tutta tesa a dare tutele nuove al lavoro che cambia, accompagnando la stessa con una forte innovazione organizzativa che permetta a tutti gli operatori e ai delegati (non come oggi solo a pochi di questi) di essere sostenuti in questo nuovo difficile impegno con competenza. Imparando anche ad essere veloce, altra precondizione dell’oggi.
In una battuta, servono sindacalisti che riempiano la propria agenda di trattative sulla formazione continua, sul sostegno all’alternanza scuola-lavoro, sulla valorizzazione della professionalità, sui premi di risultato, sui contratti di solidarietà espansivi per stabilizzare precari, sulle politiche attive in alternativa agli incentivi per la mobilità volontaria piuttosto che impegnati in raccolte di firme sul fisco, in manifestazioni tutte incentrate sull’azione del governo, in piattaforme sommatoria spesso generiche.
Sarà faticoso. Anche perché le sirene del “vivere di rendita” (ovvero impegnarsi a discutere di Renzi e chiedere la patrimoniale) continueranno a suonare e non richiedono competenze e preparazione. Ma è l’unica via che abbiamo.
Vedo infine un ultima questione problematica. A differenza degli ultimi 20 anni il Paese, le controparti, gli interlocutori sono meno interessati al fatto che le innovazioni e le svolte siano portate avanti solo da alcuni e non da tutti i sindacati.
I sindacalisti di lungo corso sono oggi i più disillusi sulla concreta possibilità di rilancio di una azione unitaria. Ma il tema c’è tutto e non potrà essere eluso, nemmeno dalla Cisl: o tutto il sindacato elabora e mette al centro cambiamento e innovazione o difficilmente riuscirà ad incidere. Riflettere su perché restare divisi e cosa fare insieme nei prossimi anni torna di estrema attualità.
Credo in definitiva che il rilancio di una profonda e convinta azione unitaria passi dalla capacità di mettere al centro idee e obiettivi completamente diversi e in discontinuità rispetto a quelli che abbiamo trattato negli ultimi 10 anni.
Roberto Benaglia
Segretario regionale Cisl Lombardia