Il valore dell’apprendistato e della formazione in ambienti di lavoro, oggi/2 – Una lezione moderna dall’utilizzo dell’apprendistato nella economia pre-capitalistica

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Bollettino ADAPT 3 giugno 2019, n. 21

 

Le gilde medievali sono state spesso accusate di essere un elemento limitante la diffusione dell’innovazione e lo sviluppo economico in epoca pre-industriale, a causa del loro operato tendente alla conservazione dello status quo, con azioni semi-monopolistiche e finalizzate alla esclusiva conservazione del potere e dell’influenza accumulata ([1]). Questa tesi trova la sua origine nella nota analisi di Adam Smith, che ne “La ricchezza delle nazioni”([2]) criticò l’apprendistato denunciandone l’eccessiva rigidità, la scarsa valenza formativa, e il limite che poneva all’organizzazione del lavoro agli albori della rivoluzione industriale. I due elementi, l’apprendistato e le gilde che lo regolamentavano e promuovevano, vennero quindi “bollati” come residui di un sistema economico e sociale medievale incapace di affrontare le sfide poste dall’innovazione.

 

Una lettura alternativa è proposta nel recente contributo D. De la Croix, M. Doepke, J. Mokyr, Clans, Guilds, And Markets: Apprenticeship Institutions And Growth In The Pre-Industrial Economy, IZA Working Paper, 2016, che approfondisce, in un quadro comparato, il ruolo giocato dall’apprendistato e dalle gilde nel favorire lo sviluppo e la diffusione dell’innovazione nel contesto europeo: una lettura quindi diametralmente opposto a quella sopra richiamata. La prima constatazione da cui muovono gli autori è il riconoscimento che l’apprendistato ha rappresentato, per secoli, il metodo “naturale” con il quale sono state trasmesse competenze e capacità tecniche e artigianali: una trasmissione realizzata grazie al rapporto imitativo e “mimetico” tra apprendista e maestro, fatto di conoscenze tacite e inespresse, che vanno a comporre quel “sapere pratico” che per molti secoli ha contraddistinto il fare degli artigiani e, più in generale, dei lavoratori europei. Prima, quindi, di essere un contratto, l’apprendistato è un metodo per apprendere efficacemente utilizzato, in modo più o meno consapevole e strutturato, per trasmettere tecniche e metodi produttivi. Ciò detto, è altrettanto evidente che esso non può avere una precisa delimitazione geografica, ma è emerso in Europa come in Asia on in Africa. La differenza tra “gli apprendistati” non è quindi da ricercare in loro stessi, ma nel contesto culturale socio-economico nel quale sono andati sviluppandosi, e dagli attori presenti e chiamati a regolamentarli. In Europa, quest’ultimi sono proprio le gilde sopra citate, messe a confronto dagli autori con i “clan” diffusi invece in Asia. Attraverso questo confronto, il working paper cerca di capire il rapporto tra questi due diversi attori – le gilde e i clan – e la diffusione di processi d’innovazione tecnica su larga scala.

 

Non concentrandosi sull’apprendistato in sé, ma sulle istituzioni nelle quali si sviluppano i processi di trasmissione delle conoscenze, gli autori le definiscono così, legandole ai processi d’innovazione: «The “family” in our analysis is the polar case where no enforcement mechanism is available that reaches beyond the nuclear family, and hence children learn only from their own parents. In the family equilibrium, there is still some technological progress due to experimentation with new ideas and innovation within the family, but there is no dissemination of knowledge, and hence the rate of technological progress is low. The “clan” is an extended family where reputation and trust provide an informal enforcement mechanism. Hence, children can be come apprentices of members of the clan other than their own parents (such as aunts or uncles). The clan equilibrium leads to faster technological progress compared to the family equilibrium, because productive new ideas disseminate within each clan. The “guild” in our model is a coalition of all the masters in a given trade that provides a semi-formal enforcement mechanism, but also regulates (monopolizes) apprenticeship within the trade.» (p.4). Escludiamo da questo commento il mercato, non approfondito neanche dagli autori del working paper, che si concentrano invece sui diversi processi d’innovazione favoriti dai clan e dalle gilde.

 

Premessa necessaria per comprendere l’esito di questo confronto è l’idea, pedagogica, per la quale un giovane apprendista nel confronto con una pluralità di maestri, di contesti e di pratiche, di metodi e di esperienze, acquisisce un numero di competenze e di capacità maggiore (e migliore) rispetto a quello di un apprendista legato ad un unico orizzonte di riferimento, culturale e tecnico. L’idea, in fondo, è che nella pluralità di esperienze significative, nella comparazione e nel confronto con altre pratiche e soprattutto con altri maestri, si acquisisca un “fare intelligente” altrimenti facilmente riducibile al mero possesso di una tecnica, se pensato come mera imitatio di un agire già strutturato. Dal confronto con altre esperienze, dal dialogo con altri maestri, dalla condivisione dei saperi nasce anche la possibilità della creatività, possibilità a rischio invece in una prassi ripetitiva e rigidamente stabilita. Fatta salva questa premessa, gli autori mostrano come sia i clan, intesi come sopra, che le gilde, svolgono entrambi l’utile compito di “togliere” i giovani all’esclusivo dominio dei genitori, aprendogli quindi un orizzonte più ampio: nel clan, il giovane poteva imparare un mestiere da altri suoi parenti, o da conoscenti comunque legati alla sua famiglia, non essendo quindi obbligato a portare avanti quello del padre; nelle gilde, il giovane entrava in contatto con maestri dai quali apprendeva, e con i quali spesso viveva. Entrambe queste istituzioni “sganciano” il giovane dalla famiglia, di fatto contribuendo a costruire uno spazio pubblico imprescindibile per lo sviluppo sociale.

 

Ma clan e gilde non sono uguali, anzi: sono molte le differenze che li contraddistinguono. La più vistosa è la ragione stessa del loro essere: mentre i primi sono comunque raggruppamenti parentali, le seconde nascono tra maestri che condividono la stessa attività lavorativa, superando quindi il criterio del legame “di sangue” e concentrandosi invece su quello “settoriale”. Ma il vero fattore che contraddistingue le gilde è, secondo gli autori, l’organizzazione e la strutturazione dell’apprendistato e del journeymanship, quest’ultimo inteso come il periodo in cui un giovane, concluso il suo periodo formativo presso un maestro, viaggiava e lavorava in altre botteghe e con altri maestri. È proprio nel journeymanship che individuano l’elemento capace di favorire la diffusione dell’innovazione: mentre infatti i clan erano comunque limitati e chiusi da vincoli parentali, un giovane journeyman viaggiava liberamente, conoscendo altri maestri e mostrando le sue abilità tecniche, accrescendo quindi il suo bagaglio professionale e allo stesso tempo favorendo la diffusione della conoscenza, non limitati a gruppi famigliari ma a chiunque appartenesse “all’arte”.

 

Riprendendo ora le critiche richiamate in apertura, sembra emergere una contraddizione: da una parte le gilde sono additate come strutture rigide e tutte concentrate sul mantenimento della propria influenza economica e sociale, mentre nel contributo in analisi sembra emergere un punto di vista diverso. In realtà, questa contrapposizione è superabile se ci si concentra, nuovamente, sul ruolo istituzionale da loro giocato nel regolamentare e promuovere l’apprendistato. Quest’ultimo, infatti, non era e non è mai stato uno strumento rigido, ma ha anzi dimostrato alti gradi di flessibilità: basti pensare che, secondo alcuni studi, dei sette anni di durata indicati da Adam Smith come uno dei limiti dell’istituto, buona parte degli apprendisti non li viveva lavorando per lo stesso maestro, ma viaggiando o cambiando mestiere e bottega ([3]). Bisogna quindi non tanto concentrarsi sulla struttura delle gilde, o sul loro ruolo esclusivamente economico, ma comprendere il più profondo valore sociale giocato nel contesto pre-industriale nel favorire la diffusione della conoscenza attraverso la mobilità degli apprendisti e, con essi, delle loro conoscenze e capacità. Spesso inoltre gli “ex” apprendisti, i journeymen, non viaggiavano soli: questi viaggi non erano casuali, ma seguivano rotte consolidate nel tempo, e quindi il viaggio stesso rappresentava un’esperienza formativa, dato il reciproco confronto tra journeymen. Emerge quindi con chiarezza come l’apprendistato si è configurato, in epoca pre-industriale, come una modalità plurale e dinamica per trasmettere conoscenze e tecniche, soprattutto grazie al fatto che, per promuovere l’apprendimento e l’innovazione, è necessario lavorare assieme, in un contesto partecipato: ciò “obbliga” l’apprendista che vuole accrescere le proprie competenze a viaggiare presso altri maestri e altre città, diffondendo così il suo sapere.

 

Gli autori del working paper elaborano un modello economico con il quale dimostrano che il sistema delle gilde è stato più efficace di quello del clan nel trasmettere la conoscenza e favorire l’innovazione: questo perché, come già ricordato, il clan è più rigido, chiuso, e spesso composto da appartenenti alla stessa famiglia o parentela. Il sistema delle gilde si base invece sulla coerenza produttiva e settoriale al proprio interno, e non famigliare: ciò permette processi di più efficace competizione, favoriti anche dalla mobilità sopra ricordata degli apprendisti. In Europa i legami famigliari, soprattutto nel medioevo, perdono terreno a favore di istituzioni superiori, quali, tra le altre, le gilde e le corporazioni: è in questo contesto che comincia a diffondersi l’apprendistato: «As our analysis above makes clear, in our view apprenticeship institutions that promoted the dissemination of knowledge lay at the heart of Western Europe’s success. Many of the guild arrangements supported the spread of technological knowledge beyond the boundaries of individual guilds, a critical factor in the diffusion of technology across the European continent» (p. 42). In Asia, invece, e specialmente in Cina, la struttura “a clan”, più rigida e meno “mobile”, rende più complesso l’emergere di fenomeni d’innovazione. A questo ragionamento svolto dagli autori se ne lega subito un secondo: il ruolo giocato dalle città in epoca medievale. Sono le città, infatti, i luoghi dove gli apprendisti “vanno a bottega”: ciò favorisce processi d’accumulo di lavoratori qualificati e di sviluppo locale. In Asia, invece, le città non ebbero questo ruolo predominante: è quindi possibile riconoscere come l’innovazione si connetta alla geografia e nasca da una storia particolare, da premesse che sono esito di processi secolari.

 

In conclusione, gli autori individuano nelle gilde, e soprattutto nel sistema dell’apprendistato, gli elementi che favorirono i processi d’innovazione e sviluppo che, di fatto, furono le premesse necessarie per la successiva rivoluzione industriale. I due momenti storici – tardo medioevo e prima rivoluzione industriale – non vanno quindi letti in contrapposizione, ma in continuità: i lavoratori qualificati e dotati di competenze tecniche, capaci di innovare e creativi, ideatori delle tecnologie che favorirono l’industrializzazione dell’Europa, altri non sono se non gli stessi apprendisti e journeymen formati grazie al sistema costruito nei secoli dalle gilde. Un sistema dinamico e fluido, diffuso lungo una rete di città più o meno piccole lungo tutta l’Europa, capace di favorire l’innovazione attraverso la mobilità della conoscenza e al continuo confronto e dialogo tra saperi incarnati da giovani apprendisti e mastri. Un orizzonte diverso da quello asiatico, dove il predominio della struttura sociale del clan e il ruolo secondario giocato dalle città favorirono uno sviluppo, economico e sociale, differente.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

([1]) Si veda, a questo proposito, S. Ogilvie, Guilds, Efficiency, and Social Capital: Evidence from German Proto-Industry, in The Economic History Review, 2/ 2004, pp. 286-333.

([2]) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Torino, 1975 (ma 1776)

([3]) Si veda, a questo proposito, P. Wallis, Apprenticeship and Training in Premodern Englan, in The Journal of Economic History, 3/2008, pp. 832-861, e M. PatchettHistorical Geographies of apprenticehip: rethinking and retracing craft conveyance over time and space, in Journal of Historical Geography, 55, 2017, pp. 30-43

 

Il valore dell’apprendistato e della formazione in ambienti di lavoro, oggi/2 – Una lezione moderna dall’utilizzo dell’apprendistato nella economia pre-capitalistica
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