ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 22 luglio 2019, n. 28
Il sistema delle relazioni industriali ricopre un ruolo fondamentale nella regolamentazione e promozione dell’apprendistato: anche in Italia, molti sono i compiti e le responsabilità in capo alla contrattazione collettiva. Responsabilità che non sono esclusivamente di natura normativa e gestionale, ma soprattutto culturale: è nel riuscire a valorizzare il senso e lo scopo – storicamente declinati – dell’apprendistato che si gioca buona parte del successo – o dell’insuccesso – dell’operato delle relazioni industriali in questo campo. Per questo motivo, è particolarmente interessante approfondire, a partire da un esempio tratto dal secolo scorso, come nelle trasformazioni dell’apprendistato è possibile cogliere e riconoscere il ruolo giocato – o meno – dalla rappresentanza. Il presente articolo si concentrerà quindi sull’esposizione delle tesi sostenute nel seguente contributo: A. Mckinlay, From Industrial Serf To Wagelabourer: The 1937 Apprentice Revolt In Britain, in International Review of Social History, 1/1986, pp. 1-18.
L’autore si concentra sul grande sciopero degli apprendisti nel 1937 in Inghilterra (nell’area attorno a Glasgow, in particolare), un momento storico nel quale riconosce l’emergere definitivo di una nuova idea di apprendista: non più un “industrial serf”, un “servo” che deve apprendere un mestiere, ma un lavoratore dipendente come tutti gli altri. Vettori di questo mutamento sono sicuramente l’innovazione, la divisione del lavoro, ma anche il ruolo giocato dalla rappresentanza. La divisione del lavoro proprio dell’organizzazione capitalistica produce effetti importanti per quanto riguarda i processi d’apprendimento dei giovani apprendisti: “While these processes made the apprentice less of a learner of the trade and more of a productive boy worker, they also significantly enhanced the strategic importance of apprentices within the occupational structure of the metal-working industries” (p. 2). La divisione del lavoro mette in crisi il tradizionale sistema di formazione dei giovani attraverso l’apprendistato, nella sua componente pedagogica (cambia ciò che si apprende, non più un mestiere ma un insieme di competenze), giuridica (l’apprendistato passa dall’essere un contratto formativo tra un maestro e un giovane ad acquisire i contorni di un contratto di “normale” lavoro subordinato), e organizzativa (gli apprendisti non sono più i futuri maestri ma personale altamente qualificato). Secondo l’autore, l’effetto cumulativo di queste trasformazioni genera una vera e propria “proletarizzazione” dell’apprendistato. Non si arriva, però, alla perfetta coincidenza tra apprenditi e altri lavoratori: i primi non avevano infatti diritti sindacali, e il sindacato non poteva intervenire sulla regolamentazione dell’istituto.
La rappresentanza non sembra “vedere” gli apprendisti, concentrata invece sul “tipico” lavoratore subordinato del tempo e sulle sue esigenze. La scarsa tutela faceva sì che in periodi di crisi gli apprendisti erano i lavoratori più frequentemente licenziati, o che vedevano drasticamente ridotta la loro retribuzione. L’insieme di questi fattori provocò lo sciopero del 1937, completamente gestito e organizzato da giovani apprendisti, senza l’appoggio del sindacato (che non voleva complicare le relazioni con i datori di lavoro). Subito bollato come una protesta “dovuta all’età”, e preso poco sul serio, lo sciopero si diffuse e si ampliò, coinvolgendo molti apprendisti e molte aziende industriali attorno a Glasgow. Le richieste che gli apprendisti presentarono furono le seguenti: un aumento della retribuzione, la possibilità di ricevere (migliore) formazione tecnica durante l’orario di lavoro, il superamento di logiche di proporzione tra apprenditi e journeyman troppo stringenti e limitative per i primi (nel caso in analisi, per ogni 4 journeyman poteva essere assunto un apprendista), e la possibilità di costituire proprie rappresentanze sindacali o di aderire ad una già esistente. Queste richieste vengono quasi totalmente disattese, ad esclusione dell’aumento della retribuzione e la parziale concessione di alcune tutele sindacali.
Andando a fondo delle motivazioni dello sciopero del 1937, l’autore riconosce che al centro delle rivendicazioni degli apprendisti stava il desiderio di essere inseriti in percorsi di continuo apprendimento, al fine di non essere confinati in mansioni ripetitive ma di diventare “ottimi lavoratori”. Il punto non è quindi, esclusivamente, di naturare salariale, né può appiattirsi alla richiesta di maggiori tutele: l’apprendistato in quegli anni stava infatti vivendo una profonda trasformazione. Lo sfruttamento degli apprendisti come lavoratori sottopagati e quindi come “normale” manodopera a basso costo non è una motivazione sufficiente per comprendere le ragioni dietro lo sciopero del 1937: al centro sta invece il senso dell’apprendistato nel contesto dell’impresa capitalistica: “The purpose of the strike was not only to win a wage rise, but also, as the Clyde boys put it, “to hit hard and obtain the chance to become brilliant mechanics, a chance which their employers deny them. In short, the strike was a reaction to the progressive degradation of apprenticeship as a method of skill acquisition begun in the late nineteenth century” (p. 18). Lo sciopero del 1937 non rimane però senza effetti: favorì infatti la trasformazione dell’apprendistato in un lavoratore le cui specifiche esigenze vennero sempre più prese in considerazione dal sindacato.
Col passare del tempo però, questo inglobamento fece sì che si perdessero sempre più i tratti caratteristici del rapporto d’apprendistato, di fatto favorendo la sua trasformazione in un più o meno “normale” rapporto subordinato. Lo sciopero del 1937 invece aveva come primo obiettivo il desiderio di riguadagnare il senso e lo scopo dell’apprendistato come percorso autenticamente formativo: un desiderio che venne solo in parte compreso dalle successive azioni sindacali. La rappresentanza, in questo caso, non mutò al mutare degli interessi specifici che era chiamata a tutelare – quelli degli apprendisti –, ma anzi favorì il mutare dell’istituto, cercando di promuoverne l’aderenza sempre maggiore agli standard del normale lavoro salariato.
Questo sciopero, e più in generale il rapporto tra apprendistato e rappresentanza, è approfondito anche in P. Ryan, Apprentice strikes in British metalworking, 1919-69: attributes and interpretation, in CEDEFOP, Towards a history of vocational education and training (VET) in Europe in a comparative perspective, Volume 1, 2002, pp. 46-65. Secondo l’autore “Apprentice strikes contributed also to the further erosion of the distinction, both de jure and de facto, between apprenticeship and regular employment”. (p. 47). Di per sé, sotto il profilo prettamente economico uno sciopero degli apprendisti potrebbe essere sembrare paradossale: di fatto il datore di lavoro perde una voce di costo che ha in perdita, in quanto l’apprendista produce comunque meno di quanto guadagna, e l’apprendista non accede alla formazione che giustifica il senso del suo percorso. Allo stesso tempo, il datore di lavoro potrebbe pagare nettamente meno gli apprendisti e fornire scarsa formazione: in questo caso, lo sciopero andrebbe soprattutto a danno suo. Ciò genera quindi due possibili interpretazioni degli esiti raggiunti e degli scopi perseguiti dagli scioperi degli apprendisti: “From one perspective – termed here the ‘empty threat’ interpretation – they continued a historical tradition of youthful exuberance and licensed misbehaviour but lacked economic implications […] From the alternative standpoint – termed here the ‘real damage’ view – the disputes represented serious industrial conflict, with implications for industrial relations, industrial training and education alike” (p. 59). L’autore propende per la seconda tesi: gli scioperi furono alimentati e a loro volta favorirono la trasformazione dell’apprendista da giovane in formazione a normale lavoratore dipendente e “sindacalizzato”.
La ricomprensione dell’apprendistato nella sfera d’influenza del sistema delle relazioni industriali ha quindi provocato una sua “omologazione” alle richieste e alle esigenze degli altri lavoratori, di fatto riuscendo ad ottenere una migliore e più elevata retribuzione. Allo stesso tempo, questo aumento generò un minore investimento, da parte dei datori di lavoro, sulla formazione erogata agli apprendisti e una diminuzione della sua durata, di fatto contribuendo ad indebolire in misura sempre maggiore alcuni degli elementi che avevano contraddistinto l’apprendistato nella società precapitalistica: la dimensione formativa e la lunga durata.
Concludendo, gli scioperi degli apprendisti inglesi dimostrano il difficile travaglio da un’idea di apprendistato propria della società pre-capitalistica, al suo nuovo ruolo giocato nel contesto della grande industria novecentesca: un travaglio che, almeno nel caso in questione, il sindacato riuscì solo in parte a comprendere nelle sue ragioni più profonde. Non solo. Ciò che emerge dalle riflessioni fin qui svolte è la possibilità, in mano al sistema di relazioni industriali, di farsi vettore organizzativo e culturale del cambiamento nel contesto della grande trasformazione del lavoro: anche oggi l’apprendistato sta vivendo un momento di trasformazione, le cui possibilità sono ancora solamente intuibili. In una società dove i processi d’apprendimento continuo sono sempre più interrelati all’esperienza lavorativa, valorizzare e promuovere l’apprendistato come strumento per la diffusione di questa cultura delle relazioni tra apprendimento e lavoro è una sfida a cui la rappresentanza non può rinunciare.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo