Se la notizia dell’installazione, nei prossimi tre anni di più di 100 mila caricatori wireless per cellulari in 7.500 caffetterie di Starbucks sparse per il territorio nord-americano ha suscitato scalpore, ancora più eclatante è stata la decisione dell’azienda di pagare gli studi a migliaia dei suoi dipendenti.
L’iniziativa, che partirà il prossimo autunno, si chiama Starbucks College Achievement Plan e prevede il rimborso integrale delle spese universitarie ai lavoratori che si iscriveranno nel programma di corsi della Arizona State University (ASU) come junior (terzo anno di college) o senior (quarto e ultimo anno). Per gli iscritti come freshman (studenti al primo anno) o sophmore (secondo anno) sarà possibile accedere a borse di studio del valore di 6.500 dollari. Per tutti i dipendenti aderenti all’iniziativa saranno altresì a disposizione consulenti dell’ateneo per un migliore indirizzamento nella scelta del percorso.
Ai dipendenti aderenti al progetto è chiesto di lavorare almeno 20 ore settimanali e non viene garantita la permanenza in azienda una volta completati gli studi. L’occasione è comunque di quelle da cogliere al volo: i lavoratori potranno frequentare e conseguire un Diploma di Laurea in modalità di formazione a distanza (online university education) presso un’Università con una delle più vaste e meglio valutate offerte formative di questo tipo: 40 percorsi di Laurea che coinvolgono 11.000 studenti. Non a caso il Presidente dell’ASU è considerato una sorta di “profeta” della formazione a distanza
L’originalità della notizia non rende comunque inutile chiedersi quali potrebbero essere le potenzialità e le difficoltà di iniziative simili se sperimentate nel contesto culturale e normativo italiano.
Da un punto di vista culturale, le imprese italiane sono tutt’altro che inesperte nel campo della formazione dei propri dipendenti e, più in generale, nella pratica di politiche di c.d. welfare aziendale. La storia industriale del nostro Paese è caratterizzata da una lunga tradizione di imprenditori filantropi: Marzotto, Olivetti, Mattei, Del Vecchio sono solo alcuni esempi noti. Il paternalismo aziendale è un tratto che per lungo tempo ha caratterizzato, e continua a caratterizzare, le dinamiche di molte realtà produttive italiane, soprattutto quelle piccole e medie, che sono l’ossatura della nostra economia.
La forte diffusione del welfare aziendale, oggi sempre più presente anche in quelle aziende senza un passato con connotazioni paternalistiche, è frutto di questa tradizione filantropico-paternalistica. Si sente sempre più spesso parlare di aziende che pagano borse di studio ai figli dei dipendenti, inaugurano asili nido aziendali, promuovono la tutela della genitorialità e instaurano ampie reti di convenzioni con realtà commerciali e non presenti nel territorio di riferimento.
Le difficoltà culturali comunque non mancano e interessano tutte le parti in causa: sindacato, imprese e lavoratori.
Se da un lato una componente sindacale riconosce nel welfare aziendale uno strumento con elevato potenziale, dall’altro, vi sono frange non piccole che lo considerano uno scambio a buon mercato per l’impresa, che baratta quote di salario significative con beni e servizi di scarsa incidenza economica per il lavoratore.
L’impresa, dal canto suo, nel dover scegliere il tipo di remunerazione da erogare ai propri dipendenti, è solitamente incline a soluzioni semplici e ponderate in tema di welfare aziendale, in virtù della complessità organizzativa e gestionale che ne consegue. Tale prudenza davvero rischia di far percepire l’iniziativa come “scambio a buon mercato” con esiti ovvi nella scelta del lavoratore se “costretto” a scegliere fra retribuzione monetaria e retribuzione in “welfare”. Un piano di welfare senza adesioni convince l’imprenditore ad abbandonare questa strada e tutto torna come prima, senza vincitori, ma con entrambe le parti sconfitte.
Le norme certo non aiutano impresa e lavoratori. L’art. 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) esclude dal reddito di lavoro dipendente, derogando al principio di onnicomprensività dello stesso, il valore di quei beni e servizi diretti a soddisfare bisogni del lavoratore designati dal legislatore come meritevoli di tutela. Non concorrono alla formazione del reddito: i contributi previdenziali e assistenziali aggiuntivi, i servizi di trasporto collettivo per il tragitto casa-lavoro, i servizi di ristorazione e i ticket restaurant, le opere e i servizi con finalità di educazione, ricreazione assistenza sociale, sanitaria o culto e le somme e i servizi per finalità di istruzione (queste le deroghe principali). Tali valori sono poi deducibili in sede di determinazione del reddito a fine IRES (quasi integralmente) e IRAP (quelli relativi ai beni in natura secondo le ultime interpretazioni sul punto).
Se apparentemente la normativa fiscale italiana risulta addirittura più favorevole di quella statunitense, che prevede la detassabilità solo per gli impianti sportivi aziendali, servizi di trasporto e, in parte, per spese relative all’istruzione (che nel nostro ordinamento sono detassabili senza limiti), invero per far si che il lavoratore benefici del regime di favore fiscale occorre rispettare determinati parametri quantitativi (massimali previsti per contributi previdenziali e assistenziali etc.) e qualitativi (la fruibilità dei servizi dalla generalità o categorie di dipendenti, la volontarietà da parte del datore di lavoro, il divieto di pagamento liquido del servizio etc.) che rendono rigida e complessa la costruzione di qualsiasi vero piano di welfare.
La norme poco chiare e i confusi orientamenti dell’Agenzia delle Entrate costringono le imprese a ricorrere a interpelli, adeguarsi prudenzialmente a interpretazioni restrittive della norma, se non addirittura a rischiare di implementare pratiche apparentemente non allineate alla legge, rischiando sanzioni.
Volendo trasporre il caso specifico di Starbucks nel contesto italiano, la criticità principale non sarebbe culturale, ma normativa. Indipendentemente dall’opposizione o dal favore sindacale, il principale motivo di diffidenza dell’imprenditore sarebbe la tassazione in capo al dipendente dei costi sostenuti per la frequenza dell’Università, sebbene pagati dall’impresa. Il valore di questi pagamenti concorrerebbe alla formazione del reddito di lavoro dipendente.
In conclusione, pur considerando quella di Starbucks un’iniziativa meritevole di rilievo mediatico, in quanto denota una sensibilità per il benessere dei dipendenti e un’attenzione alle esigenze degli stessi in un contesto sempre più mutevole in termini di nuovi bisogni e nuovi rischi sociali, all’atto pratico nessuna impresa italiana riuscirebbe (se non con ingenti investimenti) a replicare quel tentativo nel nostro Paese.
È quanto mai necessaria la strutturazione di un sistema pubblico e privato in grado di far proliferare tali pratiche abbattendo, da un lato, le incertezze normative che frenano il datore di lavoro e, dall’altro, le residue barriere culturali che interessano sindacato, imprese e lavoratori.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@DanGrandi