Il Ministero del lavoro ha recentemente comunicato di avere ricevuto telematicamente 15.078 accordi di produttività stipulati nel corso del 2015 (11.003) e dei primi mesi del 2016 (4.075; la norma prevede il deposito dei contratti entro 30 giorni dalla sottoscrizione). Questi accordi permettono di applicare l’agevolata imposta sostitutiva del 10% ai premi di risultato entro il limite di 2.000 euro lordi (2.500 euro per le aziende che coinvolgono pariteticamente i dipendenti nell’organizzazione del lavoro) in favore di lavoratori con redditi da lavoro dipendente non superiori a 50.000 euro.
È indubbio che poco più di 4.000 contratti firmati nel 2016 sia un numero insoddisfacente, che meriterebbe di essere studiato dal Governo prima di azzardare un costoso innalzamento delle soglie detassate e dei redditi che ne possono beneficiare, come è allo studio dei tecnici del Ministero dello Sviluppo Economico.
Molto più incoraggiante è invece il conteggio dei contratti che prevedono una qualche misura di welfare, 2.626, ovvero il 17% del totale, ma, soprattutto, il 65% di quelli sottoscritti nel 2016. La statistica non è arbitraria: la riforma del welfare aziendale è vigente dal primo gennaio di quest’anno; è perciò ragionevole ipotizzare che la maggior parte di questi accordi sia stato negoziato nei primi mesi dell’anno. In altre parole, il welfare aziendale pare riscuotere successo, forse ancor più che il tradizionale premio monetario.
In effetti, se correttamente costruito, un piano di welfare è una soluzione vantaggiosa tanto per il dipendente (che riceve una serie di servizi di valore decisamente più elevato di quello che sarebbe stato il premio liquido, tassati zero) quanto per l’impresa (che sugli stessi servizi non paga istituti contrattuali e contributi). La chiave di volta è da ricercarsi nella ragione di fondo che convince l’impresa a percorrere questa strada: se è una banale tecnica di riduzione dei costi, la politica di welfare è destinata a fallire; al contrario, se diventa una moderna leva di gestione del personale, motivazione e riconoscimento delle persone (e, quindi, incremento della produttività), allora può sviluppare tutti i suoi effetti, benefici tanto alla singola impresa quanto all’intera economia.
L’ultima parola spetta ora al Governo, che deve decidere se continuare a scommettere su questo “moltiplicatore” di competitività o se sacrificarlo per tornare al caro, vecchio, ma anche inefficace, premio di produttività in busta paga.
Presidente Adapt
Pubblicato anche su Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione, il 6 ottobre 2016