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Bollettino ADAPT 6 maggio 2019, n. 17
Il 10 aprile 2019 la Corte di Cassazione sancisce, con ordinanza n. 10023, che la privazione totale delle mansioni del lavoratore subordinato non può costituire un’alternativa al licenziamento, in quanto violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale; essa può invece costituire elemento integrativo della fattispecie di giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
La Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione pronuncia, con ordinanza in camera di consiglio non partecipata, il rigetto al ricorso proposto da parte ricorrente avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 10729/2014. Quest’ultimo provvedimento aveva confermato la sentenza del Tribunale di Roma condannando una società per azioni di trasporti extraurbani al risarcimento per danno patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla privazione delle mansioni nei confronti del dipendente, un giornalista addetto all’ufficio stampa. La giurisprudenza (tra le altre v. Cass. sez. lav. 10 gennaio 2018 n. 330) difatti riconosce al lavoratore, a cui sia stata accertata la sostanziale privazione delle mansioni, il diritto al risarcimento del cosiddetto danno da demansionamento, in cui convengono sia il danno patrimoniale che il danno non patrimoniale. In particolar modo, la Corte di Cassazione stabilisce, attraverso la sentenza emessa dalle sezioni unite n. 4063/2010, che il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta il datore di lavoro abbia, con condotta illecita, gravemente violato i diritti oggetto di tutela costituzionale riconosciuti alla persona del lavoratore, nei cui confronti, ai sensi della disciplina del rapporto di lavoro, è assicurata una tutela rafforzata.
Occorre a tal proposito evidenziare che compete al giudice di merito discriminare i danni risarcibili, in quanto lesivi di interessi costituzionalmente suscettibili di tutela, dai meri pregiudizi che, concretizzandosi nella lesione di interessi privi di gravità, non sono risarcibili. È necessario inoltre precisare che la complessiva valutazione circa la sostanziale privazione delle mansioni, così come l’esistenza del demansionamento, sono accertati dai giudici di merito in base ad una ricostruzione puntale dei compiti affidati e delle mansioni svolte dal dipendente (in termini, tra molte, v. Cass. sez. lav. 11 luglio 2005 n. 14496). In aggiunta, occorre rammentare che il riconoscimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale deve essere supportato da un’idonea dimostrazione circa l’effettiva sussistenza dei pregiudizi professionali ed esistenziali su cui si fonda la pretesa risarcitoria.
Nel caso in oggetto, la posizione lavorativa rivestita dal lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale era stata soppressa nel luglio 2005 e di conseguenza la professionalità del dipendente era stata pregiudicata dalla totale assenza di mansioni. Nonostante il rapporto di lavoro intercorrente tra le parti si fosse svuotato totalmente di contenuto professionale, quale effetto diretto della soppressione della posizione lavorativa, la parte ricorrente aveva scelto di mantenere il rapporto in essere, legittimando tale scelta con la volontà di preservare l’interesse del lavoratore all’occupazione. Ai fini della conservazione del rapporto, le parti avevano quindi cercato di raggiungere un accordo e la società riteneva che in tali circostanze il totale demansionamento del lavoratore non costituisse atto illecito.
Si rammenti innanzitutto che per demansionamento si intende l’esercizio da parte del datore di lavoro dello ius variandi in modalità verticale discensionale, ossia l’assegnazione al lavoratore di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore rispetto alle mansioni individuate all’interno del contratto individuale di lavoro, ovvero alle mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Ai sensi della disciplina previgente in materia di mansioni, riconducibile all’art. 2103 cod. civ., come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, il demansionamento era implicitamente escluso; tuttavia, per interpretazione consolidata (per tutte v. Cass. 5 aprile 2007 n. 8596 e Cass. 22 maggio 2014 n. 11395), si riteneva legittima l’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori nei casi in cui questa rappresentasse l’unica alternativa possibile al licenziamento del lavoratore stesso e fermo restando il consenso di quest’ultimo. Ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., come successivamente modificato dal Jobs Act, il datore di lavoro e il lavoratore possono stipulare, in sedi cosiddette protette, accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione al fine di garantire l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, nonché nell’interesse all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita; in tali circostanze il demansionamento è legittimo. Esso è altresì disciplinato in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conservazione aziendale, individuati sulla base di parametri oggettivi e incidenti sulla posizione del lavoratore, contemperando in tal modo sia l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale che gli interessi del lavoratore. È legittimo inoltre nelle ulteriori ipotesi previste dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale ovvero aziendale.
Nel caso in oggetto, la Corte di Cassazione, convalidando quanto precedentemente rilevato dal giudice di merito, osserva che la soppressione della posizione lavorativa avrebbe legittimato il datore di lavoro al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Con quest’ultimo s’intende, ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 66, n. 604, la cessazione del rapporto di lavoro a fronte di ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. La soppressione della posizione lavorativa invece non legittima il totale demansionamento.
Specificatamente, la Sesta Sezione Civile sancisce che il datore di lavoro sia vincolato ad assegnare al lavoratore, la cui posizione lavorativa è stata soppressa, altre mansioni professionalmente equivalenti, purché possibile secondo l’organizzazione aziendale ovvero anche mansioni di contenuto professionale inferiore, purché vi sia il consenso del lavoratore; tale necessità si esprime in termini di obbligo di repechage. Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. sez. lav. 2 maggio 2018 n. 10453), l’impossibilità di assolvere al suddetto obbligo costituisce elemento integrativo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Altresì l’obbligo datoriale così delineato assume rilevanza in termini probatori e difatti l’onere della prova gravante sul datore di lavoro in merito alla legittimità del licenziamento si estende alla dimostrazione di non aver ragionevolmente potuto adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori.
Sintetizzando, l’ordinanza n. 10023/2019 risulta significativa per diverse ragioni. In primo luogo, la Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi nel caso in cui il datore di lavoro abbia applicato la disciplina del demansionamento professionale come conseguenza alla soppressione della posizione lavorativa all’interno dell’organizzazione aziendale, stabilisce che la privazione totale delle mansioni comporti il licenziamento del lavoratore qualora non sia possibile adibire lo stesso a mansioni equivalenti, in quanto non disponibili in azienda, ovvero a mansioni inferiori, qualora disponibili, per mancanza di consenso da parte del lavoratore. In secondo luogo, la stessa Corte rileva che la privazione totale delle mansioni, derivante dall’eliminazione della posizione lavorativa all’interno dell’organizzazione aziendale, costituisca violazione di diritti oggetto di tutela costituzionale riconosciuti alla persona del lavoratore, determinando in tal modo la tutela rafforzata assicurata al lavoratore alla stregua della disciplina del rapporto di lavoro.
Infine, essendo la decisione emessa tramite ordinanza della Sesta Sezione Civile dalla Corte Suprema, è opportuna una considerazione sull’aspetto procedurale, per meglio comprendere il provvedimento emesso dalla Corte di legittimità. Si rammenti infatti che la Sesta Sezione, definita anche sezione “filtro”, è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge 18 giugno 2009, n. 69 e vi è demandata ex art. 376, primo comma, cod. proc. civ. la verifica preliminare della sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio prevista dall’art. 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ.. Nel primo caso la Corte riconosce il dovere di dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale ovvero incidentale, anche per mancanza dei motivi previsti dall’art. 360 del medesimo codice; nel secondo, il dovere di accogliere o rigettare il ricorso principale ovvero incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza. In entrambi i casi, ai sensi dell’art. 380 bis, primo comma, cod. proc. civ., spetta al relatore della Sesta Sezione, qualora ritenga possibile definire in tal senso il giudizio, depositare in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia
Eleonora Peruzzi
ADAPT Junior Fellow