In Italia pensioni troppo magre e lontane per mamme, precari e disoccupati: le proposte dell’Ocse

Immaginiamo una giovane donna italiana che all’età di 25 anni, nella più rosea delle aspettative, entri nel mercato del lavoro. Ipotizziamo poi che la donna in questione abbia dei figli e che si assenti dal lavoro retribuito per un periodo di 5 anni per dedicarsi ai carichi familiari. Secondo l’Ocse, questa è una scelta che a fine carriera può costare alle donne perdite nel montante contributivo di circa il 20% rispetto alle colleghe che non sono mai uscite dal mercato del lavoro. È questo, oggi, il nodo critico del sistema pensionistico italiano che preoccupa gli autori del rapporto Pensions at a Glance 2015, secondo cui interruzioni più o meno lunghe nelle carriere professionali e l’abuso di alcune tipologie contrattuali, come ad esempio i tirocini extracurriculari, penalizzano l’accumulo di sufficienti contributi ed il conseguente accesso ad adeguati benefici previdenziali.

 

La riforma delle pensioni Monti-Fornero ha accelerato il passaggio della previdenza da un sistema misto ad un sistema contributivo nozionale che le disposizioni della precedente riforma Dini del 1995 volevano a pieno regime solamente nel 2035. A partire dal gennaio 2012, questa lunga finestra di transizione è stata abolita ed il nuovo metodo di calcolo pro-rata sarà invero applicato a tutti i lavoratori. Se da un lato i sistemi contributivi rappresentano un formidabile strumento di stabilizzazione del rapporto tra spesa pensionistica e PIL, poiché agganciano in maniera più diretta il montante pensionistico alla storia lavorativa degli individui, dall’altro lato essi sono meno generosi del metodo di calcolo retributivo, che prevede invece uno stretto collegamento delle prestazioni pensionistiche con la precedente retribuzione da lavoro.

 

Gli sforzi di contenimento della spesa pensionistica praticati dalla riforma Fornero sono stati nel complesso significativi. Oggi l’Italia spende in pensioni circa il 16% del PIL annuale. Secondo le stime dell’Ocse, le misure sottrattive del governo Monti permetteranno di ridurre, all’orizzonte 2060, la spesa pubblica per pensioni di circa 2 punti di PIL, rispetto ad una riduzione media di 0.1 per cento nell’Unione europea. Operando in un contesto di finanza pubblica già in serie difficoltà, la riforma Fornero ha inasprito le condizioni di accesso al pensionamento, innalzando l’età pensionabile minima a 67 anni, equiparandola per uomini e donne, ed ha congelato la rivalutazione per il biennio 2012-2013 dei trattamenti pensionistici superiori ai 1.400 € al mese lordi.

 

L’Ocse si dice dunque soddisfatta della sostenibilità finanziaria e della stabilizzazione della spesa pensionistica raggiunta in Italia attraverso le più recenti riforme in materia, sebbene alcuni improvvisi cambi di passo ne stiano già pregiudicando la portata: nel maggio 2015, la sentenza della Corte Costituzionale circa l’incostituzionalità del blocco delle indicizzazioni delle pensioni ha forzato il governo a rimborsare, almeno in misura parziale, i pensionati penalizzati dai meccanismi di congelamento dell’inflazione.

 

La riforma Fornero rimane tuttavia incompleta perché  manca di quel requisito di adeguatezza, inteso come la capacità del sistema pensionistico di garantire la sicurezza economica degli individui nella fase di quiescenza, indispensabile per controbilanciare l’innalzamento dell’età pensionistica e il passaggio ad un sistema di calcolo contributivo puro. Quest’ultimo è molto più sensibile, rispetto al meccanismo retributivo, a percorsi di carriera instabili, al rapido invecchiamento della popolazione ed al contesto di bassa crescita economica, proprio in ragione del più stretto raccordo tra contributi versati e prestazioni previdenziali.

 

In Italia, le persone con storie contributive relativamente corte sono dunque più vulnerabili al rischio di povertà, poiché per esse non è tutt’oggi prevista un’adeguata rete di protezione sociale. Stando alle disposizioni della riforma Fornero, i futuri pensionati che non riusciranno a soddisfare i requisiti minimi per la pensione contributiva avranno sì accesso ad un assegno sociale, che tuttavia rappresenta solo il 19% del salario medio italiano ed è uno dei sussidi assistenziali più magri nel panorama europeo.

 

La partita dell’adeguatezza delle pensioni si gioca pertanto sul livello di tutele assicurato ai pensionati di domani, per i quali è determinante la durata della carriera e la permanenza nel mercato del lavoro. In questo senso, secondo gli autori del rapporto, le misure contenute nel Jobs Act, in particolare la creazione di una nuova tipologia contrattuale a tutele crescenti, se non contribuiscono a creare nuova occupazione per via diretta, quanto meno giocano un ruolo significativo nella promozione di carriere complete e di maggior durata, essenziali per garantire ai giovani lavoratori l’adeguatezza dei futuri trattamenti pensionistici.

 

Alla luce dei recenti dati pubblicati dall’Inps, che vedono l’Italia inchiodata a un tasso di disoccupazione ancora molto alto, l’Ocse individua negli strumenti di integrazione monetaria (pension credits) e nelle politiche di conciliazione vita-lavoro la chiave di volta capace di assicurare ai futuri anziani pensioni adeguate. I benefici integrativi agiscono come meccanismi di compensazione del reddito per i periodi di interruzione della carriera, dovuti sia alla maternità che in caso di disoccupazione a lungo o breve termine. Essi possono aumentare i diritti pensionistici lungo due direttrici: da una parte allungano la durata del periodo di assicurazione e dunque l’aumento del montante contributivo al momento del ritiro dal mercato del lavoro; dall’altra parte, come conseguenza diretta di quanto appena detto, questi benefici possono accrescere la prestazione pensionistica a seconda dei guadagni personali.

 

Secondo l’Ocse, i pension credits sono strumenti efficaci per aumentare i trattamenti pensionistici colmando i buchi nelle carriere professionali degli individui, sebbene non siano in grado di compensare del tutto, ma solo in parte, tali lacune contributive. Pertanto, oltre ad istituire meccanismi redistributivi all’interno dei sistemi pensionistici, i sistemi di previdenza sociale devono essere adeguatamente disegnati in modo da, per l’appunto, prevedere tutti i rischi che una persona si può trovare ad affrontare non solo nel mercato del lavoro, ma anche negli ambiti dell’educazione e della famiglia. Ad esempio, per sua stessa natura, la scuola ritarda gli ingressi nel mercato del lavoro, aspetto che però è controbilanciato dalla formazione e dall’acquisizione di competenze che aumentano la possibilità di trovare un’occupazione stabile.

 

In tempi di calcolo contributivo e inasprimento dei requisiti anagrafici, le raccomandazioni formulate nel report dell’Ocse Pensions at a Glance 2015 chiedono dunque al legislatore italiano di prestare maggiore attenzione alle buone pratiche di conciliazione vita-lavoro e un’estensione delle tutele lungo tutto l’arco della vita naturale, e non solo di quella lavorativa, giacché in ragione dei recenti interventi di riforma le due tenderanno a convergere negli anni a venire.

 

Elena Prodi

Apprendista di ricerca – ADAPT Junior Fellow

@Elena_Prodi

 

Maddalena Saccaggi

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@msaccaggi

 

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In Italia pensioni troppo magre e lontane per mamme, precari e disoccupati: le proposte dell’Ocse
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