In tema di infortunio “in itinere”, la Corte di Cassazione sezione lavoro con sentenza n. 7313 del 13/4/2016, si è pronunciata consentendo la tutela per il lavoratore che si infortuna nel tragitto “luogo di lavoro-abitazione”, compiuto con la propria bicicletta.
Nella specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza n. 821/2011 della Corte d’ Appello di Firenze (in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Livorno) che aveva ritenuto costituire aggravamento indebito del rischio – e quindi negato l’indennizzo – l’uso della bicicletta, per coprire una distanza pari a 750 metri, senza valutarne l’impiego in relazione agli usi locali, alle normali esigenze familiari del dipendente, alla presenza e modalità di organizzazione dei servizi pubblici, alla tipologia del percorso, alla conformazione dei luoghi ed alle condizioni climatiche, nonché alla tendenza, presente nell’ordinamento, rivolta all’incentivazione dell’uso della bicicletta.
Per comprendere le ragioni e la portata di questa sentenza si deve ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale che l’ha preceduta.
In generale, l’infortunio in itinere è configurato come un’ipotesi tipica di rischio generico aggravato, cioè quel rischio affrontato per ragioni lavorative e senza bisogno di ulteriori elementi specificanti, la mera coincidenza spazio-temporale del luogo di lavoro non basta per integrare quest’ipotesi. Se nella fattispecie concreta ricorrono tali estremi, l’infortunio è indennizzabile da parte dell’INAIL. Oggi, la più recente elaborazione giurisprudenziale sta abbandonando la nozione di rischio generico aggravato e sta andando verso la configurazione di un rischio lavorativo tout court, che estenda la tutela di tutti i rischi affrontati per una finalità lavorativa.
Nello specifico, la fattispecie dell’infortunio in itinere si inquadra nell’art. 12 del d.lgs. 38/2000, il quale riconosce l’indennizzabilità degli infortuni occorsi: durante il normale percorso di andata e ritorno da casa al lavoro, ovvero tra due diversi luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro, oppure durante il percorso dal lavoro a quello per la consumazione dei pasti, in mancanza di una mensa aziendale.
L’elemento essenziale della situazione protetta – che doveva sussistere fino alla sentenza in esame – era la necessità dell’utilizzo del mezzo privato come la bicicletta.
L’infortunio in itinere veniva tutelato dall’INAIL solo quando l’uso del mezzo velocipede fosse stato necessitato dalla lunghezza del percorso e dall’assenza di adeguati mezzi pubblici di trasporto, eccezion fatta per l’evento che si fosse verificato su piste ciclabili e percorsi protetti, perché in quel caso non poteva trattarsi di dolo del lavoratore che sceglieva intenzionalmente la strada e il modo più pericoloso per andare o tornare dal lavoro. Il discrimine ai fini dell’indennizzabilità, quindi, consisteva nell’escludere la tutela se la lesione fosse stata conseguenza della libera scelta del lavoratore che decidendo di usare il mezzo privato, decideva automaticamente di esporsi a un rischio maggiore (il c.d. rischio elettivo), rispetto a quello gravante sugli utenti dei mezzi pubblici; se invece l’evento lesivo fosse accaduto in una ciclabile, questa equazione non si poteva fare, in quanto percorso protetto ed interdetto al traffico dei veicoli a motore, allora la lesione era tutelata.
Questo discrimen resta fermo anche nel caso di utilizzo del servizio di bike sharing, ossia nel caso in cui il mezzo non sia privato ma sia messo a disposizione dei cittadini e dei lavoratori dalla Pubblica Amministrazione.
La nozione legislativa di infortunio in itinere, così definita, viene ulteriormente estesa dalla giurisprudenza degli anni 2000 (Cass. 6725/2013, Cass. 13376/2008, Cass. 17167/2006, Cass. 6929/2005, Cass. 17544/2004, Cass. 10750/2001, Cass. 7208/2001), chiarendo che la necessità di ricorrere all’uso del mezzo privato deve essere valutata non in senso assoluto, ma relativamente ai normali “standard” di comportamento della società civile e in coerenza con la meritevole aspirazione di ogni lavoratore di conciliazione vita-lavoro.
In questa direzione va la sentenza della Corte di Cassazione in commento, che, per la pronuncia dell’indennizzo dell’infortunio in itinere in bicicletta, tiene conto di altri standard di comportamento della società civile che stanno emergendo in connessione a valori di rango costituzionale come l’ambiente e la salute.
Nella medesima prospettiva interpretativa, anche se ratione temporis inapplicabile alla fattispecie concreta della causa, si è mosso il legislatore che con l’art. 5, commi 4 e 5, della l. 221/2015, recante “disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, sancisce che l’uso della bicicletta s’intende sempre necessitato per i positivi riflessi ambientali che ha.
In conclusione, la sentenza in esame tutela l’infortunio in itinere in bicicletta, secondo un canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, anche per assicurare un più intenso rapporto con la comunità familiare, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività che si svolge.
Il punto centrale della sentenza in commento non è tanto il cambiamento d’indirizzo da parte della giurisprudenza, quanto il fatto virtuoso che l’inversione di marcia risponde alle nuove esigenze di sostenibilità dell’ambiente e del rapporto vita-lavoro (Eurofound, Sustainable work over the life course: Concept paper, Publications Office of the European Union, 2015).
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo