Infortunio sul lavoro e computo del periodo di comporto

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Bollettino ADAPT 8 marzo 2021, n. 9 

 

È illegittimo, per contrasto con l’art. 2110 comma 2 c.c., il licenziamento intimato per intervenuto superamento del periodo di comporto, qualora l’assenza del prestatore da lavoro sia stata determinata da un infortunio imputabile al datore ex art 2087 c.c., per avere questi violato le regole di sicurezza, adibendo il lavoratore a mansioni incompatibili col suo precario stato di salute.

 

Tale principio di diritto, già acquisito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 4 febbraio 2020, n. 2527), è stato di recente richiamato dal Tribunale di Busto Arsizio, che con sentenza del 5 febbraio 2021 ha accolto, in sede di opposizione, il ricorso con il quale il dipendente di un’azienda aeroportuale domandava l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli per intervenuto superamento del periodo di comporto, e la condanna alla reintegrazione e all’indennità risarcitoria ex art. 18, comma 1, ovvero commi 4 e 7 della legge n. 300 del 1970.

 

Nello specifico, deduceva il ricorrente di avere informato l’azienda datrice delle precarie condizioni di salute in cui versava, ma di essere stato, ciononostante, adibito a mansioni con esse incompatibili. In particolare, si trattava di mansioni da “fuori banco” che imponevano al prestatore di sostare in posizione eretta per lunghi periodi di tempo senza possibilità di sedersi, provocandogli fatica e dolori alla schiena, tali da costringerlo ad assentarsi da lavoro nei due o tre giorni successivi ad ogni turno, per recuperare l’eccessivo sforzo fisico.

 

Tali assenze da lavoro funzionali al recupero, che ammontavano a dieci giorni circa, venivano computate dall’azienda nel periodo di comporto, e dunque, poste a fondamento del licenziamento per intervenuto superamento dello stesso. Il prestatore, pertanto, richiedeva di accertare l’illegittimità di tale licenziamento, poiché le assenze in questione – riconducibili all’ infortunio sul lavoro ex art. 2110 c.c.- non potevano essere considerate ai fini del superamento del periodo di comporto, in quanto ascrivibili ex art 2087 c.c. alla responsabilità dell’azienda datrice, che aveva omesso di tutelare lo stato di salute del prestatore affidandogli mansioni non consone allo stesso.

 

Si costituiva l’azienda resistendo alle pretese avversarie, e replicando che alcuna responsabilità potesse ravvisarsi in suo capo, in quanto la mansione assegnata al prestatore non prevedeva l’obbligo di sorveglianza sanitaria. Inoltre, il ricorrente non aveva mai avanzato domanda di riconoscimento della malattia professionale, invalidità, od infortunio sul lavoro, né di modifica delle mansioni o visita da parte del medico competente, il quale non era neppure a conoscenza dei lamentati problemi di salute.

 

Questi argomenti difensivi invocati dall’azienda venivano valorizzati dall’ordinanza conclusiva della fase sommaria del procedimento, che escludeva la responsabilità datoriale ex art 2078 c.c. per carenza di prove circa la riconducibilità dei problemi di salute lamentati dal ricorrente alle mansioni affidategli. Il Tribunale di Busto Arsizio, pronunciatosi con sentenza di accoglimento sul ricorso in opposizione, ribaltava quanto stabilito nella precedente fase.

 

La pronuncia affronta il tema della tutela della salute, la quale, costituzionalmente protetta ai sensi dell’art 32 Cost., assume un rilievo specifico in materia di rapporto di lavoro per il tramite dell’art 41 Cost., che ne rinviene un limite alla libertà di iniziativa economica privata, non potendo quest’ultima svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza umana”.

 

Ciò posto, la situazione di fatto verificatasi veniva inquadrata nell’ambito della generale figura dell’infortunio sul lavoro, ex art 2110 c.c. Anche se le assenze dovute ad infortunio – così come la malattia professionale – sono per regola generale calcolabili nell’ambito del periodo di comporto, se, come nel caso di specie, l’infortunio è ascrivibile, nella sua genesi, alla responsabilità del datore ex art. 2087 c.c., tali assenze vanno decurtate da tale periodo, con la conseguenza di non potere legittimamente fondare un licenziamento per intervenuto superamento dello stesso.

 

In altre parole, al fine di determinare il periodo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, non vanno computate anche le assenze per infortunio o malattia, se queste sono state causate dal datore, ossia se costituiscono conseguenza dell’inosservanza delle regole cautelari in materia di sicurezza del prestatore.

 

Ai fini dello scomputo delle assenze in questione dal periodo di comporto, si richiede il concorso di due requisiti: a) che l’infortunio o la malattia abbiano un‘origine professionale o siano comunque connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa (come accade, ad esempio, quando fattori di nocività sono insiti nelle modalità esecutive delle mansioni o comunque presenti nell’ambiente di lavoro; b) che il datore sia responsabile di tale infortunio per non avere predisposto tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’ integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

 

Nell’ambito di dette cautele di cui si richiede l’osservanza, quindi, non rientrano solo quelle scritte, ossia recepite in un testo normativo, bensì anche le più generiche regole precauzionali ricavabili dall’esperienza del “datore modello” in omaggio ai canoni di diligenza, prudenza e perizia. Oltre all’obbligo di adottare la misura cautelare, incombe sul datore anche quello di verificare che la misura in questione sia stata effettivamente osservata da parte del prestatore, poiché se così non fosse, l’eventuale concorso di colpa di quest’ultimo non varrebbe ad escludere la responsabilità del primo ex art 2087 c.c.

 

Infatti, anche nella materia degli infortuni sul lavoro, il criterio che consente di ritenere sussistente o meno il rapporto di causalità tra condotta ed evento è quello della condicio sine qua non ex art 41 c.p., in virtù del quale qualsiasi antecedente che abbia contribuito anche in via remota ed indiretta a produrre l’evento è considerato causa di esso. Di conseguenza, è idoneo a recidere il nesso causale solo l’intervento di un fattore eccezionale, estraneo all’attività lavorativa, e di per sé sufficiente a produrre l’evento, tanto da far degradare le altre evenienze a semplici occasioni.

 

Occorrerebbe, pertanto, al fine di escludere il nesso eziologico fondante la responsabilità ex art 2087 c.c., che la condotta del prestatore costituisca non già concausa (ossia condotta concorrente) bensì causa esclusiva dell’evento. Nella specie, tale serie causale autonoma deve essere del tutto abnorme, eccezionale, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa e ad essa non riconducibile: come accade, ad esempio, a fronte di iniziative intraprese ed attuate volontariamente dal solo prestatore in base a ragioni e motivazioni del tutto personali.

 

Ebbene, la situazione anzi descritta non ricorre nel caso in esame, nel quale, viceversa, veniva ritenuto sussistente, e non reciso, il nesso causale tra condotta omissiva del datore ed infortunio lamentato dal prestatore. È difatti stato rilevato come le mansioni affidate al lavoratore, per la loro durata, intensità e modalità esecutiva, abbiano contribuito all’aggravarsi delle patologie multifattoriali pregresse dello stesso, figurando quali concause dell’infortunio, come tali idonee ex art. 41 c.p. a fondare un addebito di responsabilità datoriale.

 

Né varrebbero ad escludere ciò gli argomenti di cui all’ordinanza impugnata circa la mancata richiesta di malattia professionale da parte del prestatore, atteso che questi ben può richiedere le prestazioni INAIL entro un lasso di tempo ragionevole dal momento di manifestazione della malattia, e che pertanto alcun elemento di sfavore può attribuirsi alla mancata richiesta immediata delle stesse.

 

In definitiva, quel che rileva ai fini della indagine circa la legittimità del licenziamento è il solo esame, innanzi illustrato, circa la riconducibilità delle assenze alla responsabilità datoriale ex art 2087, alla luce del criterio di cui all’art. 41 c.p. In base a tali argomenti, il Tribunale di Busto Arsizio ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dall’azienda opposta per violazione dell’art. 2110, comma 2 c.c, e ha condannato la stessa alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento in favore del medesimo, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino all’effettiva reintegra.

 

Mariateresa Ravidà

Dottoressa in giurisprudenza

 

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