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Bollettino ADAPT 16 dicembre 2019, n. 45
Il settore tecnologico nell’economia americana continua a svilupparsi ad un ritmo sostenuto, ponendosi come motore dell’innovazione e della crescita economica a livello nazionale. Tuttavia, le imprese ad alto contenuto di tecnologia tendono ad essere concentrate solamente in un numero molto esiguo di hub territoriali. Silicon Valley, Boston, Seattle e San Diego tra il 2005 e il 2017 hanno assorbito oltre il 90% della crescita generale del settore, contribuendo a creare una dinamica del “winner-take-most”, con un forte impatto anche sul mercato del lavoro.
Il risultato? Secondo il Brookings Institute, crescenti divari regionali, perdita di opportunità di sviluppo e un complessivo ridimensionamento della competitività degli Stati Uniti nel loro complesso.
Cosa è possibile fare per mitigare il divario in termini di innovazione e crescita tra i centri urbani e i territori che faticano a tenere il passo o che addirittura vengono depauperati di capitale umano e talenti attratti, invece dalle aree metropolitane “superstar”?
Abilitare uno “sviluppo territoriale diffuso”, investendo nei centri dell’innovazione, attraverso la creazione di posti e occasioni di lavoro non solo più numerosi, ma anche di qualità, integrando le strategie economiche e politiche “place-sensitive” con i più tradizionali interventi “people-based”. Questa è la riposta che Robert D. Atkinson, Mark Muro e Jacob Whiton propongono nel recente report “The Case for Growth Centres. How to spread tech innovation across America”.
La pubblicazione del Brookings Institute individua nel settore tecnologico l’ambito produttivo a maggiore contenuto di innovazione, capace di abilitare benessere e prosperità per gli attori degli ecosistemi in cui le aziende che lo compongono operano, ma anche di intensificare le disparità territoriali nei confronti di tutti gli altri territori “left behind”. In questo senso, il report si inserisce nel corposo filone di studi che, occupandosi delle fratture e divari territoriali, in relazione all’impatto sullo sviluppo locale sostengono che la rilevanza del luogo (geografico) di lavoro impatterebbe, attraverso la sua attrattività, tanto sulle scelte, prospettive di carriera e transizioni occupazionali individuali, quanto sull’abilitazione dei processi di apprendimento, la concentrazione e diffusione del capitale umano “creativo” e, conseguentemente sulle performances dei territori stessi. In questo senso, con quella che viene chiamata “resurgence of cities”, verrebbero a verificarsi due fenomeni distinti ma strettamente collegati: l’influenza delle città regioni di residenza sulle opportunità di avanzamento professionale (“effetto scala mobile”) e la ricollocazione tra le città e delle regioni stesse (“effetto ascensore”).
Insomma, le regioni in cui sono presenti grandi conurbazioni urbane, fornirebbero così un “escalator” per la carriera soprattutto ai lavoratori più giovani, con credenziali educative alte e, con riferimento alle loro attitudini personali, ambiziosi (lì già residenti). Parallelamente le regioni caratterizzate dalla presenza di grandi aree metropolitane innalzerebbero il loro stesso status, agendo come magneti per i lavoratori che vi si trasferirebbero nella convinzione di trovarvi migliori opportunità di crescita sia professionale (e non solamente in termini di remunerazione, ma anche di soddisfazione lavorativa), che personale. Esattamente ciò che, secondo il report, starebbe già accadendo da troppo tempo negli Stati Uniti.
Per gli Autori, il gap territoriale venutosi così a creare non potrà essere colmato né per il solo effetto delle forze di mercato e nemmeno per il tramite di iniziative locali, non sistemiche, di sviluppo economico. È per questo motivo che risulterebbe indispensabile un intervento da parte delle istituzioni federali per ricomporre le fratture e trasformare le realtà in difficoltà in centri urbani autosufficienti, motori di innovazione e crescita a beneficio di intere regioni.
A questo scopo, la proposta è quella che il Congresso costruisca una lista di aree metropolitane destinatarie di maggiore sostegno federale in termini di “innovation inputs”. Il riferimento non è solo a livello di territorio, ma anche di settore: la ricerca di Muro, Atkinson e Whiton si concentra sulle dinamiche occupazionali di 13 “innovation industries”, cioè filiere produttive dove almeno il 45% dei lavoratori possiede titoli di studio (lauree e diplomi) in discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e dove gli investimenti in R&D per lavoratore sono almeno di 20.000 $. Questi comparti variano dall’industria aerospaziale, all’ingegneria chimica, al software e data processing. Perché focalizzarsi su queste specializzazioni produttive? Perché, nonostante impieghino circa il 3% di tutti i lavoratori statunitensi, essendo ad alto contenuto innovativo, generano ben il 6% del PIL e costituiscono ¼ di tutte le esportazioni americane. E perché partire dal problema delle disparità regionali? Perché oltre 1/3 dell’occupazione in questi settori è concentrata in soli 16 stati, mentre più della metà è sparpagliata nei restanti 41. Concentrazione territoriale peraltro legata alla natura stessa del fattore tecnologico: secondo gli Autori, progresso e produttività crescerebbero in aree ricche non solo di risorse materiali (economiche), ma anche di capitale umano (“talent”).
“These places enjoy the benefits of what economists call cumulative causation” spiega il rapporto: gli innovation input di provenienza federale dovrebbero dunque essere erogati per massimizzare le possibilità di accesso ai processi di agglomerazione, di trasferimento tecnologico e di conoscenza quali prerequisiti per l’attivazione di sinergie tra imprese localizzate in regioni dove, allo stato attuale, non sono ancora presenti hub robusti di innovazione industriale. La prosperità economica che ne conseguirebbe, non sarebbe di poco conto se pensiamo che il valore aggiunto da un lavoratore dei settori in esame, nei 20 poli urbani a maggiore concentrazione di imprese innovative è di 1/3 superiore a quello delle restanti 363 aree metropolitane a livello nazionale. Che queste ultime, a bassa produttività, comprendano quasi il 60% dell’economia americana sottolinea un problema di efficienza strettamente correlato con quella che potremmo chiamare una mappa dell’innovazione sbilanciata. In altre parole, secondo il report, sia le dinamiche del mercato del lavoro sia i pattern di localizzazione industriale starebbero rafforzando gli squilibri regionali, compromettendo l’efficienza economica generale -anche in termini di prodotto nazionale- e la competitività degli Stati Uniti.
Gli ingranaggi dell’industria tech sono in netto contrasto con i meccanismi di funzionamento del settore manifatturiero, dove le aziende si trovano in primo luogo a dover mantenere bassi i costi per competere. Tuttavia, sebbene le imprese ad alto contenuto di innovazione non competono solo sulla base dei costi, questi ultimi non sono però elementi trascurabili: con il paradosso che l’incremento della concentrazione di output tecnologici e occupazione in un numero esiguo di luoghi molto costosi, significa che le aziende (e i loro lavoratori) si trovano ad avere a che fare con strutture dai costi più elevati e meno produttive di quanto potrebbero esserlo altrove, qualora fossero situate in location meno dispendiose ma adeguate allo sviluppo del business. Inoltre, per sfuggire ai costi crescenti delle città superstar, secondo gli Autori, in assenza di interventi federali, è più probabile che molte aziende (start-up innovative incluse) non solo diversifichino le operazioni fuori dagli Stati Uniti, ma che addirittura li abbandonino per stabilirsi all’estero, senza prendere in considerazione altre aree metropolitane americane. Perché? Non solo perché i poli urbani stranieri risultano essere più economici, ma soprattutto poiché essi dimostrano di essere tech hub maturi, con grande disponibilità di lavoratori ad alte qualificazioni, solide infrastrutture dell’innovazione e immersi in ricchi ecosistemi di clienti, fornitori e concorrenti.
“L’idea della teoria neoclassica dell’economia che il mercato debba essere lasciato alla guida dell’innovazione ha, invece, lasciato -indietro- il cuore degli Stati Uniti” ha commentato Atckinson in una intervista. É per questo motivo il report invoca un forte coinvolgimento del governo federale nell’aiutare alcune aree metropolitane nella transizione verso hub autosufficienti capaci di “contagiare” positivamente i territori circostanti grazie alle opportunità connesse alla crescita del settore high-tech.
La proposta che ne deriva è che sia il Congresso a costruire una lista di aree metropolitane destinatarie di maggiore sostegno federale in termini di “innovation inputs”. In una prima fase, dando il via un processo di selezione indipendente dei poli innovativi di tipo competitivo, rigoroso e orientato ai risultati per individuare i più promettenti 8–10 potenziali poli di crescita a cui destinare per 10 anni sostegno in termini di risorse finanziarie (stimate in 100 miliardi di $), predisponendo coerentemente un quadro normativo idoneo ad abilitare i processi innovativi. Parallelamente, componendo un pacchetto di misure a supporto dei centri individuati. Il pacchetto dovrebbe comprendere: fondi per la ricerca e lo sviluppo, risorse per lo sviluppo della forza lavoro, sgravi fiscali e contributivi, finanziamenti per le imprese ma anche interventi di pianificazione urbana e supporto allo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti.
In assenza di questo tipo di intervento (per nulla usuale) da parte del governo federale, anche i costi sociali delle fratture territoriali diverrebbero sempre più insostenibili: l’iper–concentrazione delle industrie innovative porta con sé crescenti ineguaglianze. Gli Autori evidenziano come milioni di cittadini si trovino ad essere già in una situazione di svantaggio e difficoltà con riferimento alle opportunità di lavoro, possibilità di reddito, ma anche di soddisfazione personale, felicità e salute mentale semplicemente in ragione del fatto di vivere in una regione piuttosto che in un’altra. Il luogo di residenza è un elemento cruciale nel determinare le condizioni economiche degli individui, soprattutto in presenza di divari regionali particolarmente pronunciati. Perciò, la distanza tra molti americani e delle buone opportunità di lavoro, quelle legate ai poli dell’innovazione, si traduce in una sorta di esclusione economica. Questa distanza priva milioni di lavoratori che vivono nel luogo “sbagliato” delle maggiori opportunità associate agli effetti moltiplicatori della crescita prodotti dai settori dell’innovazione nei “right places”. Le fratture territoriali di questo genere impedirebbero dunque anche ai lavoratori a basse qualificazioni residenti lontano dai tech hub di accedere agli aumenti salariali che invece contribuiscono a migliorare le condizioni di chi, pur non avendo un titolo di studio dell’istruzione secondaria o terziaria, vive in prossimità delle conurbazioni ad alta concentrazione di imprese innovative.
Insomma, il tech-driven spatial divide a livello nazionale ha raggiunto un livello tale per cui non è più possibile sperare che si risolva da solo, né per mano del mercato, né a seguito di iniziative bottom-up non sistemiche e poco coordinate. Il report è chiaro nelle sue conclusioni e raccomandazioni: è tempo che gli Stati Uniti reagiscano con forza a questi trend e diano il via ad un esperimento significativo per capire come far sì che 10 aree metropolitane promettenti diventino motori dinamici di innovazione nel cuore della nazione, a supporto della crescita nazionale, per uno sviluppo economico e sociale diffuso.
ADAPT Research Fellow