Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Inps e Mastrapasqua: guai a strumentalizzare persino le pensioni degli italiani

Insisto: è inaccettabile che si sia decretata la morte civile di Antonio Mastrapasqua da parte di quegli stessi media che si prostravano al suo incedere felpato (una brillante “grande firma” di un quotidiano ha persino commentato ironicamente la lunghezza dei suoi piedi e il numero delle sue scarpe), quando era ancora “folgorante in soglio”.

 

La mia difesa dell’ex presidente del SuperInps non è un gesto di amicizia (visto che amici non lo siamo mai stati e che, nei ruoli da noi ricoperti all’interno dell’Istituto abbiamo avuto, a suo tempo, anche molti contrasti), ma un atto di ragionevolezza, perché in un Paese, per chi ricopre cariche pubbliche, ci devono essere delle regole da rispettare che, però, non possono scaturire all’improvviso e valere retroattivamente.

 

Che cosa viene rimproverato a Mastrapasqua? Sullo sfondo c’è una indagine della magistratura su fatti che riguardano il rapporti tra l’ospedale israelita di Roma (di cui il nostro è direttore generale) la Asl da un lato e l’Inps dall’altro. I media – se lo avete notato – girano al largo da questi argomenti – limitandosi ad evidenziare, nei titoli, i possibili reati in cui sarebbe incorso l’ex presidente – perché si rendono conto della fragilità delle prove ed avvertano la probabilità di una sollecita archiviazione, non appena si sarà depositato il polverone di questi giorni. Ma questa è una nostra convinzione che mettiamo subito da parte, perché non intendiamo assolvere Mastrapasqua con la medesima superficialità con cui altri lo condannano.

 

In verità, il messaggio neanche tanto subliminale che si è fatto passare, per giustificare la rimozione, è quello delle numerose cariche e del reddito che ne consegue. Non si compie neppure lo sforzo di distinguere quanto, delle entrate di Mastrapasqua, derivi dagli incarichi pubblici (i più importanti dei quali sono corollari dell’essere presidente dell’Inps, come la vice presidenza di Equitalia o la presidenza dei fondi immobiliari) e quanto dalla sua attività professionale. Certo, il nostro è un uomo di mondo, ben inserito nel contesto politico ed economico di Roma, dotato di appoggi importanti che gli hanno sempre garantito aiuto e sostegno. È un andazzo questo che in Italia è divenuto insostenibile agli occhi di un’opinione pubblica aizzata dall’odio e dall’invidia sociale, protesa all’esaltazione di un pauperismo egualitario dove ognuno deve avere secondo i suoi bisogni e non secondo i suoi meriti. Ma è Mastrapasqua che deve pagare per tutti e subire, lui e la sua famiglia, lo tsunami plebeo che si è abbattuto sul Paese?

 

Quando nel 2008 venne nominato presidente dell’Inps (in precedenza era componente del cda) il suo curriculum venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Vi erano elencati in buon ordine 53 incarichi. Le Commissioni parlamentari chiamate ad esprimere il parere di loro competenza lo diedero favorevolmente – il solo caso nella trascorsa legislatura – in modo bipartisan. Tutti quegli incarichi furono considerati requisiti positivi a sostegno della validità della nomina. Nel 2011 – si disse che gli incarichi si erano dimezzati – nulla ostò perché il governo Monti blindasse il presidente dell’Istituto di via Ciro il Grande al vertice del superInps fino alla fine del 2014 con il compito di realizzare l’incorporazione. Poi, il colpo si scena: l’inchiesta e una campagna di stampa forsennata inducono un governo tremebondo a farsela sotto e ad inventarsi delle incompatibilità con effetto ex tunc.

 

Una mossa che, al dunque, ha messo in difficoltà lo stesso governo che, adesso, stenta a trovare una persona disposta a prendere il posto di Mastrapasqua. Tutti i possibili candidati ricoprono degli altri incarichi, a cui dovrebbero rinunciare senza avere certezze del loro destino all’Inps dopo aver svolto per qualche tempo il ruolo di commissario straordinario. Tanto che il disegno di legge del governo che avrebbe dovuto tagliare come una spada affilata il nodo dei possibili conflitti di interesse, in realtà è solo una norma programmatica che rinvia il problema.  Il compenso del presidente dell’Inps (un ente con un bilancio di 500 miliardi) è pari a 220 mila euro lordi. L’Ad di Fs ne guadagna 870mila, il presidente di Poste S.p.A. 1,5 milioni, il DG della Rai 650mila, quello della Cassa depositi e prestiti 952mila; e via di questo passo.

 

Ma la cosa più abominevole è ancora un’altra: per denigrare Mastrapasqua, i media non hanno esitato a procurare allarme sociale, denunciando lo sfascio dell’Inps, sulla base del bilancio preventivo per il 2014, come se fosse colpa del suo ex presidente. Questo sgarbo, Mastrapasqua, un po’ se lo è meritato, perché a lui piaceva – quando le cose andavano bene – attribuirsene il merito. Ogni euro che entra all’Inps o che ne esce lo fa in base a disposizioni di legge che agiscono sul grande scenario dell’economia, dell’andamento dell’occupazione e dei salari, della prosperità delle imprese. È questo il tapis roulant si cui camminano i gestori, i quali possono sicuramente migliorare le performance della più grande azienda di servizi d’Europa (importanti sono i risultati della lotta all’evasione o il costo del personale, per esempio), ma agiscono sempre su percentuali molto modeste, nell’ambito di un bilancio secondo solo a quello dello Stato. Come, gli importanti saldi attivi del 2008 e 2009, derivavano dagli aumenti della contribuzione in tutti i settori da parte del governo Prodi, così adesso i conti in rosso dipendono dalla crisi economica. Nessuno dice però che, con la prima variazione di bilancio i saldi, ora in rosso, torneranno in nero – per 13,2 miliardi il risultato d’esercizio e per 20,7 miliardi la situazione patrimoniale – a causa del semplice motivo che il bilancio preventivo non tiene conto degli effetti della legge di stabilità, la quale ha sistemato, con il riconoscimento di 25,2 miliardi, un rapporto di carattere finanziario aperto tra lo Stato e l’Inpdap, poi riversatosi in termini negativi nel bilancio del superInps.

 

La storia merita di essere raccontata di nuovo. Una norma maligna del 2007 (legge finanziaria 2008) ha trasformato in anticipazioni di Tesoreria (e quindi in debiti dell’ente verso lo Stato) gli iniziali trasferimenti (e quindi crediti dell’Inpdap verso lo Stato) stanziati dalla legge Dini del 1995 a copertura dello stock delle pensioni degli statali, quando venne istituita la loro Cassa. Prima della legge n. 335/1995 le amministrazioni dello Stato si limitavano ad incassare la quota di contribuzione dovuta dai loro dipendenti (un terzo di quella complessiva); poi, quando essi cessavano dal servizio le amministrazioni erogavano direttamente i trattamenti spettanti in termini di cassa come gli stipendi.

 

Con l’istituzione della Gestione pensionistica degli statali presso l’Inpdap (l’ente era stato costituito in via definitiva nel 1994) le amministrazioni hanno dovuto cominciare a versare alla Gestione stessa la loro quota in quanto datori di lavoro. Si pose il problema di come far fronte allo stock delle pensioni in essere, erogate senza che vi fosse mai stata la corrispondente copertura contributiva. Così lo Stato si impegnò per legge a trasferire, annualmente, il corrispettivo 14 mila miliardi di vecchie lire alla Gestione, dal momento che essa si prendeva in carico il servizio. Questo stanziamento, che nel frattempo si è tradotto in euro (circa 8 miliardi), ha subito quella trasformazione in anticipazioni accennata in precedenza. Ciò per alleggerire di qualche miliardo la posizione debitoria del bilancio dello Stato presso gli attenti censori di Bruxelles.

 

In sede di legge di stabilità 2014 è stato affrontato questo problema prettamente di natura finanziaria e contabile. Lo Stato si è accollato, come già ricordato, una partita da 25 miliardi che dovrebbe alleggerire sia il risultato di esercizio sia la situazione patrimoniale del SuperInps. Pertanto, il quadro dovrebbe migliorare, in particolare nelle gestioni ex Inpdap che, al momento, presentano, per il 2014, un deficit di 8,8 miliardi ed una situazione patrimoniale negativa per 26 miliardi. Dei problemi di carattere strutturale ci sono comunque e Mastrapasqua, in ossequio alle direttive del governo, sbagliava a nasconderli.

 

Da anni il bilancio dell’Inps si regge (spesso anche evidenziando un avanzo d’esercizio) per tre dati di fondo: 1. il sostanziale pareggio del fondo lavoratori dipendenti che è l’architrave dell’intero sistema pensionistico italiano. Erano gli ex fondi speciali confluiti (elettrici, telefonici, trasporto locale, ecc.) a determinare semmai una situazione di disavanzo; 2. I colossali saldi attivi di due gestioni, quella delle prestazioni temporanee: la c.d. previdenza minore tra cui la cig, la disoccupazione, le indennità di malattia e maternità, gli assegni al nucleo famigliare; la gestione dei parasubordinati ovvero i collaboratori ed altri, che essendo stata istituita nel 1996 incassa solo i contributi senza erogare, in pratica, ancora pensioni. Queste due gestioni negli ultimi anni hanno assicurato, insieme e nell’ambito del bilancio unitario, un saldo attivo di 12 miliardi, che è servito a coprire i disavanzi delle gestioni pensionistiche in passivo, in particolare quelle dei lavoratori autonomi. La crisi ha azzerato l’avanzo derivante dagli ammortizzatori sociali. Così di galline dalle uova d’oro ne è rimasta una sola, il cui saldo attivo, ora intorno ad 8 miliardi, non è più in grado di andare in soccorso a tutti.

 

Non si deve, tuttavia, fare confusione tra l’andamento del bilancio Inps e quello della spesa pensionistica. L’Inps ha al suo interno gran parte del welfare, le pensioni, l’assistenza, il mercato del lavoro, le altre politiche previdenziali (tranne gli infortuni e le malattie professionali), gli sgravi contributivi. In via di principio non è detto che se il bilancio è in disavanzo vi sia anche uno squilibrio nella spesa pensionistica. I dati però stanno a dimostrare che la riforma Fornero non è stata approvata solo per “fare cassa”, come si è detto. Grazie alla riforma dell’anzianità e all’incremento dell’età pensionabile il numero dei trattamenti che saranno liquidati nell’anno in corso finirà quasi per dimezzarsi. Se non fosse stato così, a fronte dei chiari di luna del bilancio preventivo, la situazione sarebbe sicuramente peggiore e non facilmente rimediabile, come è stato possibile realizzare grazie ad un’operazione di carattere finanziario nella legge di stabilità. Quelle misure erano necessarie. Ancora nel 2010, come dati effettivi, si andava in pensione di anzianità ad una età media di 58,3 anni se dipendenti e a 59,1 se autonomi. Quanto alla vecchiaia, erano 65,4 anni per gli uomini e 60,8 per le donne.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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