Interesse collettivo e consenso dell’avente diritto: l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori nella recente giurisprudenza di legittimità

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Bollettino ADAPT 3 febbraio 2020, n. 5

 

L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori rappresenta una peculiarità del diritto sindacale almeno per due ragioni: da una parte, la regolamentazione dei controlli a distanza tutela la riservatezza e la dignità dei lavoratori durante l’adempimento della prestazione lavorativa, e dall’altra la procedura di installazione di impianti di videosorveglianza è un presidio di garanzia della collettività dell’interesse protetto dalla norma. Esso richiede, in ragione della posizione di subordinazione del lavoratore, la stipula di un accordo collettivo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza di esso, il rilascio di un provvedimento autorizzativo da parte dell’Ispettorato del lavoro.

 

La modifica intervenuta con l’art. 23 del D.Lgs. n. 151 ha mantenuto la necessità dell’accordo con le rappresentanze sindacali per l’installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori: il loro utilizzo è consentito “esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale[1]. Inoltre, la stessa riforma ha introdotto un’eccezione alla procedura prevista dal primo comma dell’articolo 4 relativamente agli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” [2].

 

Il giudice di legittimità ha affrontato più volte dei casi in cui l’installazione di impianti audiovisivi sia avvenuta con il consenso dei lavoratori, scritto o orale, senza il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali ai fini di un possibile accordo: la posizione della giurisprudenza in materia non è sempre stata univoca perché non sempre, ai fini della decisione, è stata considerata la collettività dell’interesse protetto dalla norma (cfr. infra, Cass. Pen. n. 22611/2012). L’ultima sentenza intervenuta (Cass. Pen. n. 1733/2020) ha ribadito una presa di posizione importante e con effetti concreti sulle scelte della Direzione aziendale: la Cassazione si è richiamata al “più recente e prevalente indirizzo di legittimità” che ritiene che “la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 4 in esame sia integrata anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti[3] (Cass. Pen. n. 22148/2017; Cass. Pen. n. 38882/2018; Cass. Pen. n. 50919/2019). La Corte ha quindi puntualizzato che l’installazione di impianti debba sempre essere preceduta da una forma di codeterminazione tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori o, se l’accordo non è raggiunto, da un provvedimento autorizzativo della Direzione Territoriale del Lavoro (oggi ITL) competente.

 

La giustificazione di tale procedura, consistente nell’affidare la regolamentazione di tali interessi alle rappresentanze sindacali o ad un organo pubblico, trova la sua ratio nella “indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore”  [4]. Con la stessa sentenza si è stabilito, inoltre, che il ricorso all’autorizzazione rilasciata dall’ITL non sia esperibile con il consenso dei singoli lavoratori: la procedura codeterminativa è da ritenersi inderogabile “potendo essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro solo nel caso di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, non già dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione” [5]. Il consenso di tutti i lavoratori uti singuli e la conseguente installazione di impianti audiovisivi, quindi, non scriminerebbe il datore dalla violazione penalmente rilevante dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori: sulle ragioni della non applicabilità dell’articolo 50 del codice penale, che riguarda appunto la causa di giustificazione attinente al consento dell’avente diritto, la giurisprudenza non è sempre stata unanime.

 

Infatti, pur essendo l’inderogabilità dell’accordo sindacale un principio oggi consolidato, la Corte di Cassazione era arrivata a conclusioni opposte legittimando una decisione che aveva ammesso l’installazione di un impianto di videosorveglianza per consenso di tutti i lavoratori (cfr. Cass. n. 22611/2012). È sicuramente d’interesse mettere a fuoco il ragionamento seguito dalla Corte che ha portato a ritenere il fatto non sussistente. Il Supremo Collegio, preso atto del consenso scritto di tutti i dipendenti mediante la sottoscrizione di un documento esplicito, aveva argomentato in questo modo: “se è vero che non si trattava né di autorizzazione della RSU né di quella di una commissione interna, logica vuole che il più contenga il meno sì che non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza” [6]. Inoltre, aggiungeva che “non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di formalismo estremo tale da contrastare con la logica” [7]. La Corte dunque, con un ragionamento a fortiori, riteneva illogico escludere la legittimità del consenso di tutti i lavoratori per ammetterlo soltanto in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi. Non solo: nella sentenza si correggeva esplicitamente il giudice di merito, il quale avrebbe dato della norma “una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica” e avrebbe “ignorato il dato obiettivo” [8], e cioè il fatto che ci fosse il consenso di tutti i dipendenti come documentato dagli ispettori del lavoro.

 

La distanza di tali conclusioni con le argomentazioni addotte nella più recente pronuncia in materia (v. Cass. Pen. n. 1733/2020 sopra riportata) è evidente: nella sentenza del 2012 pesa l’assenza di un ragionamento che non si ferma alla logica, ma che coinvolge il bene giuridico tutelato dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori e che individua correttamente il soggetto portatore dell’interesse che la norma intende tutelare.

 

Un importante cambio di indirizzo è avvenuto con la sentenza n. 22148/2017, in cui la Corte è intervenuta affermando che la tutela di interessi di carattere collettivo e superindividuale della norma penale in questione sia demandata alle rappresentanze sindacali, che sono “deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi […] abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione” [9]. Successivamente, la stessa ha poi richiamato un indirizzo interpretativo precedentemente espresso (cfr. Cass. n. 9211/1997),  che identificava una condotta antisindacale nell’installazione di impianti non preceduta da accordo con le rappresentanze sindacali, e si è focalizzata sulla ratio di una sanzione penale per la violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori: essa si troverebbe nella “considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro e il lavoratore, sia nella fase genetica che funzionale del rapporto di lavoro” (la Corte parla di esplicitamente di “sproporzione” quale compiuta spiegazione della previsione penale) [10]. Individuata la ratio dell’intervento penale, il ragionamento si conclude esplicitando come “non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato”.

 

La principale differenza dalla sentenza del 2012 attiene all’individuazione dei soggetti portatori dell’interesse tutelato dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori: se nella prima pronuncia (Cass. Pen. n. 22611/2012), la considerazione delle rappresentanze sindacali nell’interpretazione della norma era avvenuta su un piano meramente quantitativo, tanto da poter affermare a fortiori che il consenso di tutti i dipendenti uti singoli fosse qualcosa di più rispetto a quello prestato dalle organizzazioni sindacali, nella pronuncia successiva (Cass. Pen. n. 22148/2017) si mette in risalto la qualità di esso derivante dalla forza del sindacato e alla quale lo Statuto dei Lavoratori ha ricondotto la titolarità dell’interesse collettivo tutelato dalla norma. La riflessione della Corte sul tema del consenso è peraltro approfondita in una sentenza depositata il 17 dicembre 2019 (Cass. Pen. n. 50919/2019) in cui il giudice di legittimità critica l’indirizzo del 2012 relativamente all’individuazione del soggetto portatore dell’interesse che l’articolo 4 intende tutelare e afferma che “la condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali o unitarie procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici […] essendo titolari ex lege del relativo diritto” [11]. Conseguentemente “l’assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei momenti essenziali della procedura sottesa all’installazione degli impianti, derivando da ciò l’inderogabilità di detto assenso e la infungibile tassatività sia dei soggetti legittimati a prestarlo sia del necessario esperimento della procedura autorizzativa di cui all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori”; la Corte quindi ne deduce che il consenso che il lavoratore potrebbe prestare “non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell’avente diritto, non essendo nel caso descritto la condotta del lavoratore riconducibile al paradigma generale dell’esercizio di un diritto, trattandosi della disposizione di una posizione soggettiva a lui non spettante in termini di esclusività” [12].

 

In conclusione, appare evidente dalle sentenze sopracitate che l’articolo 4 si pone come obiettivo quello di regolare i conflitti nelle relazioni industriali e in cui i lavoratori non ne sono partecipi uti singuli, bensì in organizzazioni sindacali che esprimono rappresentanze nelle aziende e che sono loro stesse portatrici di interessi definiti collettivi. Le sentenze successive alla pronuncia del 2012 hanno giustamente spostato la questione sul piano giuridico e non hanno applicato l’articolo 50 c.p. [13] nemmeno nei casi in cui il consenso all’installazione di impianti era stato prestato da tutti i lavoratori poiché, come chiaramente emerge dalla norma, le portatrici dell’interesse collettivo tutelato dall’articolo 4 della l. n. 300/1970 sono le rappresentanze sindacali e non i singoli lavoratori e spetterà soltanto a loro “riscontrare se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento dell’attività lavorativa, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione” [14].

 

Lorenzo Citterio

ADAPT Junior Fellow

@CitterioLorenzo

 

[1] Cfr. art. 4, comma 1 L. 20 maggio 1970, n. 300.

[2] Cfr art. 4, comma 2 L. 20 maggio 1970, n. 300.

[3] Cfr. Cass. Pen. n. 1733/2020.

[4] Idem.

[5] Idem.

[6] Cfr. Cass. Pen. n. 22611/2012.

[7] Idem.

[8] Idem.

[9] Cfr. Cass. Pen. n. 22148/2017.

[10] Idem.

[11] Cfr. Cass. Pen. n. 50919/2019.

[12] Idem.

[13] “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”. L’art. 50 c.p. è una causa di giustificazione: se sussistente, essa esclude l’antigiuridicità del fatto. E’ legittimato a prestare consenso il titolare dell’interesse protetto dalla norma.

[14] Cfr. Cass. Pen. n. 50919/2019.

 

 

 

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