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Che il Jobs Act abbia fallito lo dimostra il dibattito sul lavoro di inizio legislatura. L’aver riproposto la contrapposizione del Novecento industriale tra lavoro precario e lavoro stabile ha finito con l’alimentare pretese e aspettative che non possono però essere soddisfatte nei nuovi mercati del lavoro. Perché le vere tutele non stanno più nel tipo di contratto con cui si lavora ma piuttosto in un moderno sistema di welfare della persona dentro continue transizioni occupazionali. Poco hanno potuto i generosi incentivi pubblici di Matteo Renzi per l’assunzione con contratti a tempo indeterminato che stabili non sono più, una volta superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Poco potrà ora l’idea di Luigi Di Maio di rilanciare il collocamento pubblico, che mai ha funzionato a regime neppure nel pieno del boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso.
Parlare di centri pubblici per l’impiego oggi significa infatti parlare, prima di tutto, delle profonde trasformazioni del lavoro all’epoca della IV rivoluzione industriale e dell’internet delle cose. Trasformazioni che ridisegnano i mercati rendendo le transizioni tra lavoro e non lavoro (sia disoccupazione, periodi formativi o di riqualificazione) molto più normali rispetto al passato. Questo significa da un lato un volume maggiore di persone che si rivolgeranno ai servizi per il lavoro e, dall’altro un ripensamento dei contenuti e dei servizi stessi. Quali siano le performance di efficienza dei centri per l’impiego italiani, che intermediano meno del 3 per cento del lavoro, è risaputo. E i motivi del malfunzionamento sono molti, a partire da una cultura diffusa nel nostro Paese che è sempre stato abituato a considerare le reti d’amicizia o familiari come il canale principale di accesso al mondo del lavoro. Ma non si può non citare quello che sembra essere il problema principale dei servizi per il lavoro italiani, ossia l’assenza di coordinamento, la mancanza di una vera rete che possa raccogliere l’insieme delle domande e delle offerte di lavoro per rendere più efficiente il loro incontro. E a tale scopo la tecnologia può aiutare moltissimo, ma la digitalizzazione del sistema è ancora un miraggio, basti pensare all’idea di Borsa lavoro prevista dalla Legge Biagi ormai quindici anni fa e mai attuatasi pienamente.
Non può bastare quindi allocare più risorse presso i centri pubblici per l’impiego per risolvere problemi che sono legati ai modelli organizzativi degli stessi. Pensiamo solo al flop conclamato del programma Garanzia Giovani che pure poteva contare su una dotazione iniziale di un miliardo e mezzo di euro. E soprattutto sembra poco utile oggi riproporre il dualismo tra servizi per il lavoro pubblici e servizi per il lavoro privati che tanto richiama a quella contrapposizione ideologica tra pubblico e privato che ha segnato il Novecento industriale e il fallimento delle politiche attive del lavoro nel nostro Paese.
Quello che serve a un mercato del lavoro moderno, in linea con quanto proposto dalla legge Biagi, è proprio una rete ampiamente sussidiaria e partecipata dalle parti sociali che metta insieme tutti gli attori al fine di offrire quei servizi di cui i mercati territoriali del lavoro hanno bisogno, a partire dalla formazione e dalla riqualificazione delle persone, passando per una vera e propria alfabetizzazione digitale per quei lavoratori che espulsi dal mercato faticano a rientrarci a causa del gap di competenze maturato negli anni.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
Cosa ci dice (e cosa non ci dice) il rapporto di monitoraggio @ANPALgov sulla struttura e il funzionamento dei servizi per il lavoro? Provo a spiegarlo nei dieci tweet che seguono pic.twitter.com/cEwt66GvHr
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
1) Debole e parziale la ricostruzione dell'assetto istituzionale: venti anni di riforme non avrebbero cambiato organizzazione/funzioni dei servizi pubblici per il lavoro. Il rapporto conferma che il #JobsAct esce largamente ridimensionato dalla mancata riforma della Costituzione pic.twitter.com/qYAbqnbjxR
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
2) Importante il collegamento tra Jobs Act e riforma Delrio di riorganizzazione dei livelli intermedi di governo del territorio. Non si evidenzia tuttavia il grande limite di quest'ultima riforma che è inadeguata a rappresentare e ancor più governare la nuova geografia del lavoro pic.twitter.com/yQ2TvUN8LG
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
3) Il rapporto evidenzia il ruolo di pivot assegnato dal Jobs Act ai centri per l'impiego nella gestione delle politiche del lavoro. Una scelta ideologica che segna un passo indietro rispetto al modello organizzativo della legge Biagi e delle regioni più virtuose (Lombardia) pic.twitter.com/tTMkM9ompa
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
4) La fotografia dei sistemi di accreditamento mostra del resto come il Jobs Act abbia poco o nulla inciso sugli assetti istituzionali di gestione dei servizi al lavoro che sono quasi tutti antecedenti alla riforma e ancora incentrati sull'impianto della legge Biagi pic.twitter.com/qn4sxHCzMl
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
5) Il problema dei problemi: l'assenza di un sistema informativo unitario di governo del mercato del lavoro. Quasi la metà dei centri per l'impiego mappati dichiara di lavorare con dotazioni inadeguate. Nel rapporto non si parla delle dotazioni degli operatori privati accreditati pic.twitter.com/xYr13wXHSQ
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
6) La carenza dei servizi: un tema essenzialmente di carenza di professionalità e competenze presso i centri per l'impiego. Questo sia in termini quantitativi che qualitativi pic.twitter.com/rvNffK9UIo
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
7) La mappatura delle categorie di utenza evidenzia l'intasamento creato sui NEET a seguito di Garanzia Giovani con passaggi puramente burocratici (i giovani sono obbligati a passare da lì senza però servizi aggiunti). Lo stesso vale per disoccupati percettori di sussidi pubblici pic.twitter.com/yuSv4XPUhK
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
8) Il cuore dei servizi alla domanda di lavoro è rappresentato da azioni di carattere informativo/amministrativo. Non stupisce che il sistema trovi sostegno nelle funzioni derivate dal vecchio collocamento. I margini per servizi personalizzati appaiono inevitabilmente compromessi pic.twitter.com/wX8IO6DZdU
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
9) Rispetto ad attività a più diretto contatto con l’analisi delle utenze (elaborazione piani personalizzati, azioni a sostegno delle candidature, mediazione coi fabbisogni delle aziende) il grosso dei centri per l'impiego appare in forte affanno pic.twitter.com/yGdGs5vFe5
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
10) Conclusioni: un sostanziale livellamento del sistema dei centri per l'impiego verso un profilo operativo piuttosto essenziale che viene peraltro reso in termini generalmente emergenziali senza cioè visione e pianificazione pic.twitter.com/tM0di7I9XE
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) June 12, 2018
*Pubblicato anche su Panorama, 14 giugno 2018