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Bollettino ADAPT 15 novembre 2021, n. 40
È stato recentemente pubblicato il XIX rapporto sull’apprendistato in Italia, dal titolo “Lo sviluppo dell’occupazione e della formazione in apprendistato”, curato da INAPP e da INPS. Lo scarso interesse suscitato da questa pubblicazione parrebbe un controsenso alla luce dell’attenzione che il dibattito pubblico invece dedica, con cadenza ormai quotidiana, alle difficoltà riscontrate dalle imprese nel trovare lavoratori dotati delle giuste competenze: proprio l’apprendistato dovrebbe essere uno degli strumenti più efficaci per la costruzione delle professionalità richieste dal mondo del lavoro, oltre che per il contrasto dei sempre elevati tassi di disoccupazione ed inattività giovanile. Approfondendo i principali dati contenuti nel report INAPP-INPS è possibile dare risposta a questo apparente controsenso.
Gli apprendisti in Italia nel 2018 (anno più recente di cui si hanno dati a disposizione) erano 494.758, in aumento del 15,2% rispetto al 2017. Le assunzioni in apprendistato, nello stesso anno, hanno coinvolto 366.466 lavoratori. Numeri in lenta crescita, ma ancora limitati, se si pensa ad esempio che ANPAL, per la stessa annualità, certificava l’attivazione di 351.153 tirocini extracurriculari (fonte: ANPAL, Secondo rapporto di monitoraggio nazionale in materia di Tirocini Extracurriculari, 2021). Una crescita peraltro trainata da una sola tipologia di apprendistato, quello professionalizzante: la percentuale di apprendistati di questo tipo sul totale di quelli attivati raggiunge infatti, nel 2018, il 97,5%, in leggero aumento rispetto agli anni precedenti (era il 97,1% nel 2017). I contratti di apprendistato di primo livello sono invece poco più di 10.000 (precisamente 10.994, il 2,2% sul totale), mentre quelli di terzo livello nemmeno un migliaio (960, lo 0,2% sul totale), entrambi in leggera diminuzione rispetto agli anni precedenti. Basterebbe questo dato per risolvere l’apparente paradosso prima ricordato. L’apprendistato, in Italia, è solo professionalizzante, mentre quello duale, che pure sarebbe quello più indicato per la costruzione di efficaci percorsi di integrazione tra istruzione, formazione, università e lavoro si riduce ad essere assolutamente residuale, e concentrato in pochi territori, come vedremo tra poco.
Per quanto riguarda la diffusione territoriale dello strumento, è in aumento sia al Nord (+15,4%), che al Centro (+13,9%) e al Sud (+16,3%). Là dove aumenta maggiormente aumenta nella sua versione professionalizzante, che al Sud raggiunge, ad esempio, il 98% delle attivazioni. Un giovane occupato tra i 15 e 29 anni su cinque nel Centro Italia ha firmato un contratto di apprendistato (19,2%), un rapporto simile a quello riscontrabile al Nord (17,1%) ma ben superiore a quanto invece ancora accade al Sud, dove solo un giovane su 10 ha un contratto di apprendistato (10,5%). Se in Lombardia continua a trovarsi quasi un quinto degli apprendisti presenti in Italia (precisamente il 18,1%), se ad essa affianchiamo Veneto (12,8%), Emilia-Romagna (10,8%), Lazio (10,1%), Piemonte (8,5%), Toscana (8,2%), scopriamo che in queste 6 regioni si concentra quasi il 70% degli apprendisti. In poche regioni e in territori ben precisi si concentra quindi la maggior parte degli apprendisti italiani.
Per quanto riguarda il primo livello, la maggior parte dei contratti è finalizzato all’acquisizione di un diploma professionale (il 60,8% del totale), seguito dalla qualifica professionale (il 32,4%), e, più a distanza, dal diploma di istruzione secondaria superiore (5,4) e dal certificato IFTS (1,1%). Questi dati sono comprensibili anche alla luce della c.d. sperimentazione duale, avviata in Italia a partire dal 2016 grazie ad un accordo in Stato Regioni del settembre 2015, e mirante (anche) alla promozione della diffusione dell’apprendistato all’interno dei percorsi IeFP (Istruzione e Formazione Professionale) regionali. Se questa iniziativa ha permesso di mettere in circolazione risorse aggiuntive per la progettazione e realizzazione dei percorsi, allo stesso tempo è andata inevitabilmente a favorire quelle regioni già dotate di un efficace sistema di formazione professionale, tradizionalmente diffuso in pochi territori. Ben si comprendono allora il perché delle quasi totale concentrazione degli apprendisti di primo livello tra Provincia Autonoma di Bolzano (52,6%) e Lombardia (34,0%), seguite a distanza dal Veneto (6,3) e Piemonte (2,5). Già solo in Lombardia e a Bolzano è presente quasi il 90% degli apprendisti di primo livello.
Passando invece al terzo livello, 3 apprendisti su 4 di questa tipologia si trovano in Piemonte (74,7%), e in misura minore in Lombardia (16%). Sono al di sotto dei 20 contratti attivati le altre Regioni, con 5 regioni nelle quali non è attivo nemmeno un contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca. Il 60,4% di questi contratti è finalizzato all’ottenimento di un Master universitario, mentre crescono i giovani coinvolti nel conseguimento di un diploma ITS (19%, +100% rispetto al 2017, con 67 contratti attivi in Lombardia e 37 in Piemonte) in apprendistato. Il 10,3% svolge attività di ricerca, il 5,4% consegue un dottorato, meno del 5% una laurea (triennale, magistrale o a ciclo unico).
Interessanti sono anche i dati riguardanti i settori produttivi dove l’apprendistato è più diffuso. Quelli in cui la presenza di apprendisti aumenta di più sono “Altre attività di servizi” (23,5%), “Attività professionali e servizi di supporto alle imprese” (20,7%) e il settore “Metalmeccanico” (19,7%). Guardando invece alla media dei rapporti di apprendistato, i primi tre settori sono il “Commercio “(20,6% rispetto al totale), le “Attività manifatturiere” (17,7%) e i “Servizi di alloggio e ristorazione” (16,8%). Concentrandoci invece sulle professionalità formate con l’apprendistato di primo livello, notiamo che la maggior parte riguardano il settore del benessere, della ristorazione, e in misura minore quello manifatturiero-meccanico. Infine, per quanto riguarda l’apprendistato di terzo livello, non sono disponibili dati precisi sul punto. L’apprendistato, soprattutto professionalizzante, aumenta in particolare nei settori dove l’impatto delle tecnologie è più limitato, e per formare mestieri “tradizionali”, con un limitato bagaglio formativo.
Altra nota negativa riguarda il settore artigiano, dove l’apprendistato si diffonde molto più lentamente che altrove: il numero medio di rapporti con questa tipologia contrattuale aumenta infatti nel 2018 del 7,8% tra gli artigiani, contro il 17,8% delle aziende di altro tipo. Anche in questo caso, le differenze tra territori sono notevoli: si va dalle Marche, dove ben il 37,4% degli apprendisti lavora in un’impresa artigiana, contro l’11,4% della Campania, numeri che non vengono spiegati dalla sola struttura imprenditoriale locale, ma che dipendono anche dall’effettiva capacità di penetrazione dell’apprendistato a livello locale e dalla sua promozione da parte delle istituzioni locali e, soprattutto, delle parti sociali.
Un breve passaggio per quanto riguarda le caratteristiche dei lavoratori in apprendistato. La classe di età che aumenta maggiormente nel 2018 è quella dei trentenni; quindi, coloro che hanno attivato l’apprendistato di secondo o terzo livello poco prima dei 29 anni o che sono beneficiari di forme di sostegno al reddito e quindi accedono al c.d. apprendistato “senza limiti di età”: un dato che porta l’età media degli apprendisti in Italia a 24,7 anni nel 2018. È questo un ulteriore segnale del progressivo allontanamento di questo istituto dal mondo dei sistemi formativi, scolastici e universitari.
Il rapporto INAPP-INPS dedica spazio anche alle “trasformazioni” da apprendistato in tempo indeterminato, che calano del 12,4% rispetto all’anno precedente. Un calo, in realtà, fisiologico, in quanto determinato dal minor numero di contratti attivati nel biennio 2015-2016, nel quale gli incentivi destinati al contratto a tutele crescenti hanno favorito il ricorso ad esso, a detrimento dell’apprendistato professionalizzante. Aumentano contestualmente le cessazioni, che fanno registrare un +15,6% rispetto all’anno precedente. Il report ci dice anche che i tassi di permanenza presso la stessa impresa a 1 e 3 mesi dalla sottoscrizione del contratto sono molto più elevati nel caso dell’apprendistato professionalizzante (rispettivamente 93,5% e 72,9%) che in quello del primo livello (88,4% e 60,4%): dopo tre mesi dall’inizio del percorso quasi un apprendista di primo livello su due ha interrotto il suo percorso lavorativo. L’apprendistato non può quindi essere pensato solo a partire dalla sua effettiva capacità di garantire un rapporto a tempo indeterminato, soprattutto alla luce di un mercato del lavoro nel quale l’utopia del mantenimento del “posto” di lavoro risulta superata dalle sempre più frequenti transizioni e integrazioni tra formazione, lavoro, e non lavoro. Questi dati suggeriscono quindi di pensare all’apprendistato prima che come contratto “sicuro”, come opportunità per la formazione di professionalità dotate di competenze che rappresentano poi l’elemento determinante l’occupabilità (nel presente e nel futuro) dei giovani. Ci dicono anche, inutile negarlo, di una oggettiva difficoltà dell’apprendistato di primo livello: e questo perché non basta, per far “vivere” l’apprendistato duale, siglare un contratto e il relativo piano formativo, ma curarne la realizzazione nella quotidianità, accompagnando e laddove necessario intervenendo sulla formazione del giovane. Una fatica che, se si pensa l’apprendistato come contratto incentivato per l’ottenimento di un “posto” a tempo indeterminato, risulta incomprensibile ed evitabile.
Prima di concludere l’analisi del rapporto, è opportuno sottolineare i dati riguardanti l’impatto degli incentivi destinati all’apprendistato sulla sua effettiva diffusione: il principale di essi, Garanzia Giovani (scelto oggi quale “modello” anche per la costruzione del programma di politiche attive GOL), ha permesso l’attivazione solo del 5% dei contratti di apprendistato nel 2018, mentre gli altri incentivi (tra i quali “Occupazione Mezzogiorno”) raggiungono solamente lo 0,9%. È facile quindi constatare come non sono gli incentivi economici o fiscali a determinare il successo dell’istituto, almeno in termini di diffusione – se si considera invece la dimensione formativa, si nota che andando ad abbattere ulteriormente il costo del lavoro queste misure rendono ancora più appetibile il professionalizzante, a detrimento dell’apprendistato duale. Poco efficaci, quindi, e potenzialmente dannosi per l’affermazione di un vero – almeno secondo gli standard europei – apprendistato di qualità in Italia.
Chiude il rapporto di monitoraggio un’analisi delle norme regionali e dei CCNL sottoscritti nel 2018, al fine di verificare se e come questi hanno recepito la normativa contenuta nel c.d. Jobs Act, e in che modo. L’analisi della normativa regionale non rivela nulla di nuovo: alcune regioni non si sono ancora adeguate a quanto disposto dall’ultimo riforma o l’hanno fatto solo per alcune forme di apprendistato – e cioè per il professionalizzante. Alcuni dei dati qui presentati sono comunque ampiamente superati, a causa dell’anno più recente preso in considerazione – il 2018. Per quanto riguarda i CCNL, su 126 analizzati 50 non hanno una disciplina aggiornata e 30 non lo disciplinano affatto. Altri 9 lo citano in altri punti del contratto, senza però alcun rimando normativo. Dei 37 CCNL che disciplinano l’apprendistato, solo 17 intervengono anche sull’apprendistato di primo e terzo livello, oltre che sul professionalizzante, spesso ricalcando quanto disposto dalla normativa nazionale senza introdurre specificazioni e particolarità in base alle caratteristiche proprie del settore produttivo interessato.
In sintesi, il quadro che ci riconsegna il rapporto di monitoraggio INAPP-INPS mette in evidenza come l’apprendistato sia oggi utilizzato, in Italia, come uno strumento utile all’abbattimento del costo del lavoro e poco altro. L’apprendistato cresce sempre di più, solo però nella sua versione professionalizzante e andando a competere con i tirocini extracurriculari e con il contratto a tutele crescenti: l’unica variabile presa in considerazione è l’impegno economico richiesto. Li accomuna, invece, lo scarso impegno formativo richiesto al datore di lavoro.
Di un apprendistato capace, invece, di costruire le professionalità richieste dal mondo del lavoro, grazie ad un lento e paziente intreccio tra standard formativi e professionali, attentamente regolato dalle parti sociali al fine di aderire il più possibile alle specificità settoriali e locali e promosso adeguatamente dall’attore pubblico, non c’è traccia. L’apprendistato duale esiste solo là dove ci sono incentivi che vanno ad innestarsi su un sistema già consolidato negli anni (la IeFP in Lombardia, Bolzano, Veneto), oppure istituzioni locali particolarmente innovative nel favorire la complementarietà tra investimenti in capitale fisso e in capitale umano, incentivando l’attivazione di apprendistato duali nel momento in cui si accede a benefici fiscali legati all’utilizzo di nuove tecnologie – è il caso, unico, del Piemonte, dove infatti si trovano 3 apprendisti di alta formazione e ricerca su 4.
Squilibri territoriali e amministrazioni locali che non promuovono l’apprendistato, regioni e parti sociali poco propense a far qualcosa in più della sola ricezione della normativa statale, incentivi che “drogano” il mercato e generano una corsa al ribasso del costo del lavoro, fanno sì che l’apprendistato venga oggi pensato, in Italia, come un canale per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro che permette il godimento di incentivi normativi, fiscali ed economici. Nient’altro.
Cosa vogliamo che sia, l’apprendistato? Solo un contratto incentivato, che si diffonde quando calano gli incentivi destinati ad altre tipologie contrattuali e che va a competere sul costo del lavoro con i tirocini extracurriculari? Oppure la risposta – faticosa, perché progettuale, partecipata, plurale – all’emergenza ricordata in apertura, mirante alla costruzione dei mestieri grazie alla sua capacità di fare sistema tra sistemi formativi e mondo del lavoro?
Un’altra via, rispetto a quella tratteggiata dal rapporto INAPP-INPS, sembra ancora possibile. Sta però alle istituzioni coinvolte nell’effettiva costruzione di questo sistema l’onere di un rinnovato protagonismo – dal basso – per la realizzazione di reti locali capaci di intercettare fabbisogni e di rimando costruire percorsi di formazione e lavoro. Non servono nuove norme, ma istituzioni – in primis le parti sociali – desiderose di superare la riduzione dell’apprendistato a solo contratto incentivato, verso la sua riscoperta come sistema per la costruzione sociale ed economica dei mestieri e delle nuove professionalità.
Matteo Colombo
ADAPT Senior Research Fellow